Categoria: Pensieri

  • “L’ha fatto con l’IA“

    Ovvero: come una frase diventa l’alibi perfetto dell’ignoranza

    Il mio primo video musicale generato ANCHE con l’IA

    “L’ha fatto con l’IA.”


    Quattro parole che ultimamente sento ripetere ovunque, come un mantra rassicurante per chi non ha la minima idea di cosa ci sia realmente dietro un processo creativo che utilizza l’intelligenza artificiale. Quattro parole che riducono ore di lavoro, competenze tecniche, scelte artistiche e sudore creativo a un semplice clic. Come dire “ho visto uno che suonava la chitarra” per descrivere un concerto di Paco de Lucía.
    Ieri ho pubblicato un video musicale. Sì, ho usato l’IA. Ma sapete cosa c’è davvero dietro?


    Il processo (quello vero)
    Partiamo dall’inizio, non dal risultato finale che vedete scorrere sul vostro schermo mentre vi grattate distrattamente.

    0 – L’ispirazione per un brano acustico. Quella non la genera nessuna IA: nasce da dentro, da un’emozione, da un momento, da una visione.
    1-4. La parte musicale: chitarra acustica, microfono professionale, scheda audio, Logic Pro con una catena di effetti ed equalizzazioni affinata in anni di prove, fallimenti, ascolti ossessivi. L’IA qui non c’entra nulla: è artigianato puro.

    5 Google Flash Image: per generare l’immagine di partenza. Sette tentativi, non uno. Sette prompt sempre più specifici, dettagliati, studiati per ottenere un risultato vicino a quello che avevo in testa.

    6 – PicsArt: per rendere neutro lo sfondo.

    7 – Upscale Media: per aumentare la risoluzione senza “impastare” l’immagine come succede con tool scadenti.

    8 – Photoshop: per le correzioni di fino. Quelle che fanno la differenza tra “bello” e “professionale”.

    9 – Apple Notes: qui ho scritto la sceneggiatura. Non “un uomo cammina nel deserto suonando la chitarra”. No. Una media di 250-300 parole per prompt, dettagliando ogni minimo particolare, atmosfera, luce, movimento, emozione. Cinque volte. In inglese! Perché è la lingua delle IA: il processo di traduzione potrebbe rovinare il risultato.

    10 Perplexity con Sonnet 4.5: per trasformare quelle sceneggiature in file JSON strutturati che i tool di generazione video potessero interpretare correttamente.

    11 – VEO 2 Fast: per generare i video delle singole scene. Con più tentativi, modificando i prompt fino ad ottenere i risultati che volevo io, non quelli che l’algoritmo decideva per me.

    12 – Flow di Google Labs: per assemblare le scene in un unico filmato coerente e avere una visione d’insieme.

    13 – CapCut: per processare il video, suddividerlo nuovamente e aggiungere gli effetti.

    14 – Final Cut: per regolare la velocità delle clip, inserire e sincronizzare perfettamente l’audio, ed esportare il risultato finale.
    Totale strumenti utilizzati: 14 (di cui solo 3 generativi AI)
    Quindi sì: si fa presto a dire “l’ha fatto con l’IA”.

    Ma la verità è che l’intelligenza artificiale è solo uno degli strumenti nel processo. Non il processo stesso.
    Il processo è la visione. La competenza. La scelta. Il controllo.
    L’IA non crea. Amplifica (o deforma) ciò che tu le dai in pasto.
    E questa differenza… beh, di questa differenza vi parlo nel prossimo post. Perché c’è uno studio del MIT che vi farà venire i brividi.
    Spoiler: chi usa l’IA come scorciatoia sta letteralmente distruggendo il proprio cervello.
    Stay tuned.

    P.S. — Il video di cui parlo è qui sopra. Guardatelo sapendo cosa c’è dietro. E poi ditemi se è ancora “solo IA”.

  • Il Superpotere degli Eterni Indecisi

    Ricky, un musicista creativo, abbraccia la sua chitarra acustica nera Gretsch in un momento di intima connessione, simbolo della scelta perfetta che supera l'indecisione.

    Ci sono delle persone che vengono mandate in crisi da un menù con più di tre pizze. Le riconosci subito: sono quelle che, di fronte alla domanda “Che si fa stasera?”, iniziano a sudare freddo, visualizzando contemporaneamente 17 scenari possibili, inclusa un’improbabile invasione aliena che renderebbe la scelta di un eventuale film totalmente irrilevante.

    Il mondo, che ha la pazienza di un gatto a cui tiri la coda, le etichetta subito: “indecise croniche”, “insicure”, “ma allora, ti muovi?”.
    La verità? È che queste persone hanno un superpotere che non sanno di avere. La loro mente non è un binario unico, è un’intera stazione centrale nell’ora di punta.
    Laddove una persona normale vede “birra o vino?”, loro vedono un diagramma di flusso. “La birra gonfia, ma è più estiva. Il vino però si abbina meglio al formaggio che forse ordinerò, a meno che non decida per il fritto, che con la birra è la morte sua. E se poi mi viene sonno? Meglio la birra, che è meno alcolica… o no?”. Il tutto in circa 0.5 secondi.


    È come avere un cervello in 8K. Mentre gli altri vedono “un film”, tu ne vedi già la potenziale delusione, il rischio spoiler, l’incompatibilità con lo stato d’animo attuale e la possibilità che tra due mesi esca la versione director’s cut e quindi forse converrebbe aspettare. Risultato? Passi un’ora a scorrere Netflix e finisci a guardare video di gente che scarta pacchi.

    Queste menti sono esploratrici instancabili di possibilità. Vedono le conseguenze, le sfumature, i mondi paralleli annidati in ogni piccola scelta. È una forma di profondo rispetto per la complessità, mascherata da una goffa esitazione.

    Poi, all’improvviso, nel bel mezzo di questo caos calmo, succede il miracolo.
    Dopo aver passato sei mesi a confrontare le specifiche tecniche di 42 modelli diversi e opposti, entri in un negozio e vedi quella chitarra. E non c’è più analisi che tenga. In un istante, cuore e cervello, istinto e fogli di calcolo mentali, smettono di litigare e si trovano d’accordo, puntando dritti verso di lei.
    Non è un colpo di fulmine. È una rivelazione. È il momento in cui tutte le variabili che hai sempre calcolato si allineano e formano un’unica, perfetta equazione.

    E in quell’istante, l’esploratore ha trovato la sua meta. E ti rendi conto che non si era mai perso. Stava solo cercando la strada di casa.

  • Compleanni, sogni di 8 minuti e un dito medio all’Algoritmo.

    Copertina ufficiale del brano "Symphonic Reverie" di Ricky Guariento. Un'immagine suggestiva di una cattedrale gotica illuminata d'oro, con colonne a forma di chitarra e un sentiero di note musicali sul pavimento.

    Anche questa volta è arrivato il giorno. E come ogni anno, mi guardo indietro e mi chiedo cosa mi sono regalato. Non parlo di oggetti, ma di atti. Atti di coerenza, di amore, a volte anche di sana e pura ribellione. Quest’anno, il mio regalo per me – e spero anche per voi – si intitola “Symphonic Reverie”.

    Ed è un brano inedito di 8 minuti e 32 secondi.

    Leggetelo di nuovo: 8:32. In un’epoca in cui la musica è diventata un sottofondo usa e getta da 30 secondi per muovere culi su TikTok, pubblicare un’opera strumentale di questa durata è un atto politico. È il mio personale rifiuto di prostituire un’idea, di venderla al pappone del consenso facile, come scrivevo tempo fa.

    “Symphonic Reverie” non è nata per essere “scrollata”. È nata per essere ascoltata.

    Questa è la storia di un sogno creativo a distanza, un’armonia disarmonica costruita a 10.000 chilometri di distanza. Protagonista con me di questa odissea sonora è la mia “partner in crime”, Michiko, giovane batterista fenomenale di Tokyo con un’anima forgiata nel metallo. Già fondatrice con me e Michal Dijkstra del gruppo “diffuso” 80 Hundred Miles. Dai nostri rispettivi home studio – il mio piccolo antro creativo e la sua cantina trasformata in un tempio del ritmo – abbiamo tessuto per mesi le fila di questo brano, nota dopo nota, beat dopo beat, con tutte le difficoltà logistiche e tecniche del caso. È un dialogo tra due mondi, due culture, unite dalla stessa urgenza espressiva. E sì, lo ammetto, a tenere insieme i pezzi di questa folle collaborazione a distanza c’è stata anche l’AI (orrore! orrore! 😱), usata come strumento, come ponte, mai come fine.

    Ricky Guariento (chitarrista) e Michiko (batterista) in posa in uno studio di registrazione. Foto promozionale per il progetto "Symphonic Reverie" e la loro "Euro-Asian Metal Alliance".

    Ma com’è, questo “Sogno Sinfonico”?

    È un viaggio prog-rock. È una creatura metal viva, che respira, che non chiede il permesso. Passa da momenti di quiete quasi riflessiva a vere e proprie tempeste sonore. Non troverete una voce umana a guidarvi, perché non serve. A parlare è solo la musica, nel linguaggio più puro e universale che esista.

    Questo brano è la dimostrazione pratica di tutto ciò in cui credo. È la mia musica fatta “per chi ama ascoltare, non solo sentire in sottofondo”. È il frutto di quella conversazione a due, intima e segreta, con l’idea di musica come amante, prima di aprire la porta al mondo.

    Oggi quella porta si apre. E se qualcuno si ferma ad ascoltare riconoscendosi in quello che abbiamo creato, allora la magia si è davvero compiuta.

    Symphonic Reverie” non è più solo mia e di Michiko. Ora è anche vostra. Se vorrete accoglierla.

    Buon ascolto. E vaffanculo, Algoritmo. 🖕🏻 Con affetto.

    e tutte le piattaforme di streaming

  • Sealounge: dove il suono diventa sabbia calda sulla pelle.

    Copertina del singolo "Sealounge" di Ricky Guariento. Un primo piano sull'addome e le gambe di un corpo femminile in bikini, sdraiato sulla sabbia. L'immagine ha un filtro caldo, color seppia, con un effetto grafico di carta strappata.

    L’autunno è un artista di tocchi lievi e sentenze definitive. Accorcia le giornate, raffredda l’aria, invita a cercare rifugi più intimi. E mentre fuori la prima pioggia lava via la polvere dell’estate e la nebbia inizia a disegnare contorni incerti, sento il bisogno quasi fisico di un calore diverso. Un calore che non viene da un calorifero, ma da un ricordo.

    In questi giorni, mi sono ritrovato ad ascoltare in loop un mio brano che sembra provenire da un’altra vita creativa: “Sealounge”.

    Chi conosce la mia musica, il mio percorso tra le trame del prog metal e le confessioni del rock, potrebbe rimanere sorpreso. “Sealounge” non ha chitarre sferraglianti né ritmi complessi. È figlio di un periodo di esplorazione, un momento in cui ho messo da parte gli strumenti che conoscevo come le mie tasche per giocare con l’ignoto: l’elettronica, i campionatori, i suoni sintetici. È stato un atto di libertà, un modo per scoprire se la mia voce creativa potesse parlare anche un’altra lingua.

    Il brano si apre con un sipario liquido: le onde del mare. Non è un semplice effetto, è una porta d’accesso. Un invito a spogliarsi del superfluo e ad entrare in una dimensione diversa, quella di un pomeriggio estivo infinito. Ho cercato di tessere un arazzo sonoro che fosse quasi tattile: la pulsazione lenta di un battito a riposo, i synth che si allargano come cerchi sull’acqua, le melodie rarefatte che evocano il dormiveglia sotto l’ombrellone, con il sole che filtra tra le palpebre e scalda la pelle.

    La musica ha questo potere straordinario: è una macchina del tempo per le sensazioni. E ogni nota, ogni suono all’interno di “Sealounge” è stato scelto e posizionato con un unico scopo: provocare quel senso di pace e di abbandono. È la mia piccola resistenza contro il grigiore che avanza, un sole tascabile da accendere quando serve.

    Oggi lo condivido con voi. Spero che possa essere un piccolo rifugio anche per voi, un’onda di calore inaspettata per scaldare questi primi giorni d’autunno e ricordarci che, da qualche parte dentro di noi, l’estate non finisce mai veramente.

    Buon ascolto.

  • Mi chiamo Donald

    Un monologo satirico che smaschera i meccanismi della post-verità attraverso la voce di Donald Trump. Un’analisi sociale travestita da satira sulla manipolazione del consenso e la costruzione della realtà alternativa.
    Ciao. Mi chiamo Donald.

    Ciao. Mi chiamo Donald. E sono un costruttore di realtà. Molto più bravo di chi costruisce solo con mattoni e cemento, credetemi. Loro costruiscono cose noiose, grigie. Anche io costruisco quelle, ma anche verità eccitanti. Verità tremendous, believe me.

    Prendete Washington. La nostra capitale. Era una zona di guerra. Un inferno. Omicidi, rapine… una vergogna. I politici chiacchieravano. Io agisco. Ho mandato la Guardia Nazionale. Gente magnifica. E come per magia, tutto è cambiato. Loro, i noiosi, dicono: “Ma i dati mostrano che i crimini violenti stavano già scendendo, erano calati del 30% rispetto all’anno prima…”. Dettagli. La gente non compra i dettagli, compra la sensazione. La sensazione era di paura. Ora è di forza. La mia forza. Ho venduto sicurezza. Un ottimo affare.

    È come con l’economia. Tutti quegli economisti con i loro premi Nobel non capiscono niente. Io ho tirato fuori una parola bellissima: dazi. E i soldi hanno iniziato a piovere dal cielo. Loro piagnucolavano: “Ma gli studi dicono che ogni famiglia americana pagherà 2.000 dollari in più all’anno!”. Fake news totali. Pagano gli altri. Paga la Cina. Certo, alla fine una parte finisce sui prezzi dei consumatori, ma questa è solo un’inezia tecnica che basta non dire. Senza i miei dazi bellissimi saremmo diventati un Paese del terzo mondo. Invece io ho reso l’America di nuovo ricca. Tremendously ricca.

    E l’ho salvata dalla più grande truffa di tutte: le auto elettriche. Hanno inventato questa scusa del ‘cambiamento climatico’, una balla colossale, solo per farvi comprare quelle macchinine ridicole. Quelle dove guidi per 15 minuti e poi stai fermo ore ad aspettare che si ricarichino. La Ford e la GM, questi geni, stavano buttando 80 miliardi di dollari per regalarli alla Cina. Io ho fermato quella follia. Ho detto no. Ho salvato il rombo di un vero motore, ho salvato i vostri pick-up e ho salvato la vostra libertà.

    La libertà. La nostra libertà è minacciata. Dicono che alla frontiera arrivano famiglie. Falso. Arriva un esercito. Stanno entrando a milioni. Loro parlano di 2 o 3 milioni di “incontri”, ma io dico che sono 15, 20 milioni di persone che non vediamo. E vengono dalle prigioni. È un’invasione. E poi li faranno votare, ma questa è un’altra storia.

    Una storia che conosco bene. Come quella della NATO. Debole. Inutile. Quando sono arrivato io, forse 5 Paesi pagavano la loro quota. Cinque! Una barzelletta. Io li ho guardati negli occhi e ho detto: “Se non pagate, la Russia faccia di voi quello che diavolo vuole”. Si sono messi a tremare. E ora pagano tutti. Tutti! Sono passati da 5 a più di 20. Loro dicono: “Ma l’accordo era del 2014, prima di te…”. Irrilevante. Non stavano pagando. Io li ho fatti pagare. Io ho salvato l’Occidente.

    Perché io sono per la pace. Nessuno vuole la pace più di me. Ho fermato sei guerre. Sei. Mi chiamavano, leader mondiali, piangendo, e io in 24 ore sistemavo tutto. Finito. Pace. Bellissimo. Poi i media, i soliti, dicevano ‘Ma la guerra stava già finendo…’ oppure ‘La tregua è durata solo due giorni’. Dettagli. Io ho fatto la mia parte, ho portato la pace. Se loro non sono capaci di tenersela, non è un mio problema. La pace si ottiene con la forza. Per questo il nostro ‘Ministero della Difesa’ suona debole. Difesa? Noi dominiamo. Dovrebbe chiamarsi ‘Dipartimento della Guerra’. È più onesto. È più forte.

    Il mio problema, se ne ho uno, è che vedo la realtà per quello che dovrebbe essere, non per quello che dicono i loro noiosi numeretti. E la mia versione è sempre la migliore.

    Grazie. Siete un pubblico magnifico. Veramente.

  • E quello che farete al più piccolo tra voi…

    E quello che farete al più piccolo tra voi…

    Ci sono parole che non si possono addomesticare. Parole che non invecchiano. Parole che, se le prendi sul serio, ti costringono a guardarti dentro senza scuse.

    Gesù, durante la sua Passione, sorprende sempre. Non grida vendetta, non lancia maledizioni. Non cerca nemmeno di difendersi: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno.”

    Ma quando si tratta dei piccoli, delle creature fragili, la sua voce diventa di pietra. Nessuna sfumatura, nessun compromesso: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me».

    È una sentenza, nuda e cruda. Non parla di colpe generiche, parla di azioni concrete. O fai, o non fai. E se non lo fai, è come se avessi voltato le spalle a Lui.

    E allora, ditemi: quando qualcuno brandisce il Vangelo come un’arma da comizio, quando urla “Dio, Patria e Famiglia” da un palco politico, ha davvero capito che cosa sta pronunciando? Perché se Dio è ridotto a un logo elettorale, se la Patria diventa un recinto che esclude, se la Famiglia è soltanto una parola vuota buona per i manifesti… allora siamo già fuori strada.

    Il Vangelo non si piega alle convenienze. Il Vangelo ti scomoda, ti costringe a cambiare, a guardare chi non vorresti guardare: il povero, lo straniero, il bambino che non ha nulla.

    Viviamo in un mondo che classifica anche l’innocenza. Ci sono bambini che hanno diritto alla scuola, al gioco, a un futuro. E bambini che nascono già scartati, già segnati da una condanna invisibile.

    Non parliamo solo di “serie A” e “serie B”: la verità più dura è che la maggioranza non entra nemmeno in campo. Non hanno scarpe, non hanno arbitri, non hanno regole che li proteggano. Sono fuori dal campionato della vita prima ancora di cominciare.

    E poi c’è Gaza.

    Ogni giorno, immagini di ospedali sventrati, scuole trasformate in macerie, bambini estratti dalla polvere con gli occhi spalancati di terrore.

    Eppure, se osi dire che è inaccettabile, ti accusano di… antisemitismo. Ma i veri antisemiti non sono forse quelli che legittimano il genocidio di un popolo, tradendo la stessa memoria che dicono di difendere?

    Chi applaude alle bombe non protegge nessuno: semina solo odio che tornerà, ancora più feroce.

    Il bambino di Gaza sotto le macerie e il bambino di Tel Aviv in un bunker hanno lo stesso diritto di svegliarsi domattina.

    E non sono diversi dal bambino di Milano o di Nairobi: Il dolore ha lo stesso pianto, la stessa fame, la stessa paura.

    Il Vangelo non dice: “Proteggete solo quelli che vi somigliano”. Dice: «Quello che fate, o non fate, al più piccolo… lo fate, o non lo fate, a me».

    La domanda, alla fine, resta lì. Immobile, tagliente come una lama.

    Se fosse tuo figlio sotto quelle macerie? Se fosse tua figlia a non avere un letto, un bicchiere d’acqua, una carezza? Ti basterebbe ancora dire: “Non è affar mio”?

    Forse è qui che Gesù ci mette con le spalle al muro: non davanti a Dio, ma davanti a noi stessi. Perché non si tratta di religione, né di politica, né di ideologia.

    Si tratta di sguardi.

    Di volti concreti.

    Di mani piccole da stringere.

    È lì che si misura la nostra umanità.

    E, se davvero crediamo in qualcosa, è lì che si misura anche la nostra fede.

    Il resto sono solo le stramaledette parole una politica senza più un briciolo di anima.

  • DEVO COMMENTARE!

    Illustrazione in stile cartoon di Ricky in pigiama, seduto al computer. Sullo schermo appare la scritta “Buongiorno!” con l’emoji del sole. Sfondo giallo caldo, atmosfera ironica e leggera.
    Cronache dal Far West dei social

    Scrivi un innocuo “Buongiorno 🌞” su Facebook.
    Pensi di aver lanciato un messaggio di pace universale, un piccolo seme di positività nel caos digitale.

    Illuso.

    In tre secondi netti, il tuo buongiorno viene intercettato dai droni della polemica e piovono le risposte:
    • “Buongiorno a chi??? A me no di sicuro! Parla per te!”
    • “Il sole di oggi è palesemente meno luminoso di quello del 1987. Tipico pressapochismo moderno. Studia la meteorologia storica, ignorante.”
    • “Il tuo post è offensivo nei confronti di chi soffre d’insonnia e dei vampiri. Un po’ di sensibilità, VERGOGNA.”

    E tu volevi solo salutare. Forse, con un po’ di ottimismo, strappare un sorriso.

    Il problema è che sui social la gente ha smesso di leggere.
    Ora reagisce d’impulso.

    Ogni dialogo rischia di essere una detonazione.
    Siamo passati dalla connessione alla compulsione.

    Non importa se hai condiviso un trattato filosofico di Heidegger, la foto del tuo gatto che dorme in una posa impossibile o la notizia della scomparsa di una celebrità: l’impulso pavloviano è più forte.
    Scatta il bisogno irrefrenabile di lasciare un segno, di piantare una bandierina.

    Il commento è l’urlo primitivo dell’Homo Digitalis: non scrivere equivale a non esistere.
    E l’esistenza, qui, si misura in byte di indignazione.

    I social network, ovviamente, lo sanno benissimo.
    Anzi, hanno costruito su questo la loro fortuna.

    Ogni insulto, ogni “boomer”, ogni “svegliaaa!”, ogni correzione non richiesta è carburante per il motore.
    Più commenti, più scontri, più tempo speso sulla piattaforma.

    Più tempo online = più dati raccolti = più soldi dagli inserzionisti.

    L’odio va considerato la vera feature del sistema, altro che bug:
    è l’olio che lubrifica la macchina perfetta e spietata del traffico digitale.

    E in questa arena, ci sono i gladiatori. Possiamo dividerli in categorie:
    L’Archeologo del “si stava meglio quando”: qualsiasi cosa tu posti, era meglio prima. Le canzoni, le estati, l’aria, persino le guerre.
    Il Cecchino della Sintassi: ignora il contenuto del tuo post per scovare quel congiuntivo sbagliato o l’accento mancante. La sua missione è una crociata grammaticale che ignora totalmente la comprensione.
    L’Offeso Esistenziale: convinto che ogni parola che scrivi sia un attacco personale e cifrato contro di lui. Il tuo “buongiorno” era chiaramente una frecciata perché sa che lui ha dormito male.

    Poi, quando il livello si alza, arrivano i professionisti: le fabbriche dell’odio.

    Bot, troll e account fasulli che inondano le bacheche con migliaia di commenti copia-incolla.
    E quando la politica decide di farsi un lifting digitale, ecco che la magia si compie: sotto al post di un onorevole italiano compaiono 500 cuori da Amit Patel, Chinedu Okafor e Fatima Banu.

    Tutti magicamente ferratissimi sulla legge di bilancio italiana e convinti che:
    “Che leader! É il futuro della nostra nazione!!!”

    Peccato che la loro nazione sia a 7000 km di distanza.

    Intanto il commentatore seriale, quello in carne e ossa, continua la sua missione solitaria.
    Rinuncia al dialogo per avere un pulpito.
    Rinuncia a capire per poter sentenziare.

    Vive per correggere, puntualizzare, demolire.

    Non dorme, non mangia, non ama: commenta.
    Un click dopo l’altro, con la furia di un eroe tragico, come se il destino del pianeta intero dipendesse da quell’emoji arrabbiata lasciata sotto la tua ricetta della carbonara.

    E tu?
    Tu guardi lo schermo, il tuo piccolo sole digitale sommerso dal fango.
    Tu volevi solo dire buongiorno.

    La prossima volta vai al bar. ☕️

  • NON AUTORIZZO FACEBOOK!

    Collage satirico in stile pop-art: un politico che urla, una ragazza in posa provocante, un fondoschiena che balla e un finto guru in giacca cheap seduto in una stanza con carta da parati a fiori. Sopra tutti campeggia un grande timbro nero con scritto ‘NON AUTORIZZO’.
    NON AUTORIZZO!

    Ammettiamolo: siamo tutti un po’ come il tizio che grida “non autorizzo il canone RAI!” al televisore spento.

    La bufala di “Non autorizzo Facebook” è stata il nostro modo di sentirci ribelli, di urlare contro il vento, mentre le multinazionali del web ci ridevano in faccia. Una terapia di gruppo per chi non ha mai letto le condizioni d’uso, ma ha tanto tempo da perdere.

    E allora mi sono chiesto: e se questa formula magica funzionasse per le cose che contano davvero?

    1. Non autorizzo la politica.

    Non autorizzo quei faccioni che spuntano ovunque, ad ogni angolo, che si sono impossessati del 90% della comunicazione. Ogni post, ogni commento, ogni meme politico è una goccia che scava la roccia della mia sanità mentale. Non è più dibattito: è un ring dove i pugili si picchiano a suon di “sì, ma tu…”. Se devo indignarmi, meglio davanti a un’opera di Marina Abramović: almeno lei si ferma prima che il mio fegato faccia harakiri.

    2. Non autorizzo l’esposizione della “mercanzia”.

    Tipo “vetrina stradale” anni ’90: ragazzine che giocano a fare le bamboline sexy e ventenni che sembrano uscite da un catalogo per escort. Una volta tanto basterebbe un po’ di mistero… invece oggi è tutto esposto, tutto in saldo. Le battone almeno avevano un obiettivo chiaro: portare a casa la pagnotta. Oggi è show per… cosa?

    3. Non autorizzo il culo-metronomo.

    No, non sono le facce di cui sopra. Un tempo celebrato da poeti e artisti, oggi è ridotto a schiavo digitale. Non balla per gioia, ma al ritmo preimpostato di un algoritmo che lo vuole su una hit da fast fashion musicale. E la cosa più triste è che non porta a casa neppure la pagnotta: solo l’illusione di un’attenzione che si spegne il giorno dopo. Il requiem di musica, danza, scenografia e altre arti varie.

    4. Non autorizzo il guru da 9,99 €.

    Il profeta del “milione in tre giorni” che registra i video in un monolocale con la carta da parati a fiori. Se sei davvero milionario, dovresti essere su uno yacht, non davanti a un poster storto di New York. Il vero business non è la ricchezza, ma la speranza di diventarlo: ed è quella che i guru rivendono a colpi di corsi e formule magiche.

    Ecco il mio “non autorizzo”.

    Non è la difesa dei miei dati (quelli ormai li ha un algoritmo di cui non conosco nemmeno l’indirizzo). È la difesa dei miei occhi, della mia sanità mentale, del mio fegato e del mio cuore.

    Vorrei solo essere un giardiniere che cerca di proteggere i suoi fiori dalle erbacce e dalle piante carnivore dei social.

    E se non funziona, almeno ci saremo fatti una risata.

  • Quando i migliori tacciono

    Quando i migliori tacciono

    Yeats, più di un secolo fa, scriveva parole che oggi sembrano scolpite per noi: “I migliori difettano d’ogni convinzione, i peggiori sono colmi d’appassionata intensità.”

    Non è solo poesia, è una diagnosi. È la radiografia di un mondo che sembra ribaltato, dove la ferocia ha voce squillante e la bontà resta sussurrata.

    Il problema non è solo che “i peggiori” esistano. Ci sono sempre stati. Il vero dramma è che i migliori spesso esitano, dubitano, restano ai margini. Forse per pudore, forse per paura di non essere all’altezza, forse perché la bontà non ha lo stesso fascino del clamore.

    Così, mentre il male brucia con fiamme alte e spettacolari, il bene rimane brace sotto la cenere.

    Ma il mondo non si salva con le braci nascoste. Il mondo ha bisogno di incendi buoni, di convinzione che arda, di passioni che illuminino.

    La sfida non è diventare come i peggiori, non è imitarne la violenza. È imparare da loro la lezione dell’intensità. Se il male avanza con ferocia, il bene deve rispondere con ostinata bellezza, con la stessa forza, con la stessa determinazione.

    C’è un paradosso feroce: chi sparge odio si sente subito vittima non appena viene messo in discussione. Piange, accusa, trasforma chiunque non la pensi come lui in un nemico da abbattere, senza distinzioni.

    È il segno della loro fragilità. I peggiori hanno paura della reazione, hanno paura di chi non ha paura di loro. Non sanno reggere l’indifferenza, e ancora meno sopportano il rifiuto di odio e violenza.

    Essere buoni non significa essere deboli. Significa scegliere di non arrendersi al cinismo, di continuare a credere quando tutti ridono della fede, di custodire la gentilezza come un’arma segreta. È un atto rivoluzionario, perché va controcorrente.

    Uno non vale uno. Ci sono i migliori e ci sono i peggiori.

    Ma non basta riconoscerlo: i migliori devono smettere di nascondersi. Devono imparare ad avere la stessa voce squillante, la stessa passione viscerale. Devono imparare a sopravvivere e, soprattutto, a resistere.

    Perché se i migliori trovano la loro intensità, allora sì che il centro potrà tornare a reggere.

  • Disinnescare

    Testo tipografico in bianco e nero con la frase: “Ho avuto in mano un mitra, poi ho imparato a disinnescare”
    Io non sono buono. Io… disinnesco.

    “Sei troppo buono, Ricky!”

    Quante volte me lo sono sentito dire.

    La verità è un’altra. Io non sono buono. Io… disinnesco!

    Ho avuto la fortuna – sì, la fortuna – di fare il Servizio Militare. 5º/95, in piena Guerra dei Balcani. Luglio di quell’anno: il genocidio di Srebrenica. Un orrore consumato a poche centinaia di chilometri da casa, nel cuore del civile continente europeo. Uno dei punti più bassi dell’Umanità.

    Per me quei mesi sono stati formativi. Ho imparato a usare fucili e mitra, e al poligono ero tra i migliori: punteggi altissimi. Eppure proprio in quei momenti ho iniziato a odiare le armi dal profondo. Perché se le conosci davvero, capisci che l’unico modo per sopravvivere è evitarle.

    Ricordo la sensazione di potenza che dava stringere un’arma. Un piacere quasi perverso: quell’oggetto freddo diventava un’estensione del corpo, respirava con te, pulsava con te. Ti faceva sentire immortale. E proprio quella vertigine mi ha fatto paura.

    Il destino volle che finissi al Genio Militare. In particolare al Genio Sminatori. Lì ho imparato l’arte del disinnesco: bombe, granate, mine antiuomo. Ma anche fucili e mitra.

    E ho scoperto un piacere ancora più grande: rendere inoffensive quelle stesse armi che potevano distruggere, mutilare, uccidere. Trasformarle in pezzi senza potere. Inerti. Inutili.

    Disinnescare.

    È diventata la mia vocazione. E nel tempo ho imparato a farlo anche con le persone. I bulli si eccitano nell’innescare rabbia, provocare esplosioni per avere la scusa di colpire ancora più forte. Io invece tolgo loro la miccia. La spoletta. Li lascio con la polvere bagnata.

    E a quel punto devono fare i conti con se stessi, senza appigli. Poi, se vogliono, possiamo parlare con calma.

    Guardate cosa succede nel mondo: i cosiddetti “potenti” sembrano solo una massa di bulli ignoranti che si divertono a stuzzicarsi per far crescere la tensione. Sbavano come cani rabbiosi aspettando l’incidente, la scintilla che giustifichi una violenza ancora più grande. Sono stati eletti dal loro popolo, e questo giustifica tutto. Ma loro restano al sicuro, mentre migliaia di innocenti muoiono.

    Figli di puttana.

    Prima o poi qualcuno li disinnescherà. E quel giorno pagheranno per tutto.