Autore: Ricky

  • NON AUTORIZZO FACEBOOK!

    Collage satirico in stile pop-art: un politico che urla, una ragazza in posa provocante, un fondoschiena che balla e un finto guru in giacca cheap seduto in una stanza con carta da parati a fiori. Sopra tutti campeggia un grande timbro nero con scritto ‘NON AUTORIZZO’.
    NON AUTORIZZO!

    Ammettiamolo: siamo tutti un po’ come il tizio che grida “non autorizzo il canone RAI!” al televisore spento.

    La bufala di “Non autorizzo Facebook” è stata il nostro modo di sentirci ribelli, di urlare contro il vento, mentre le multinazionali del web ci ridevano in faccia. Una terapia di gruppo per chi non ha mai letto le condizioni d’uso, ma ha tanto tempo da perdere.

    E allora mi sono chiesto: e se questa formula magica funzionasse per le cose che contano davvero?

    1. Non autorizzo la politica.

    Non autorizzo quei faccioni che spuntano ovunque, ad ogni angolo, che si sono impossessati del 90% della comunicazione. Ogni post, ogni commento, ogni meme politico è una goccia che scava la roccia della mia sanità mentale. Non è più dibattito: è un ring dove i pugili si picchiano a suon di “sì, ma tu…”. Se devo indignarmi, meglio davanti a un’opera di Marina Abramović: almeno lei si ferma prima che il mio fegato faccia harakiri.

    2. Non autorizzo l’esposizione della “mercanzia”.

    Tipo “vetrina stradale” anni ’90: ragazzine che giocano a fare le bamboline sexy e ventenni che sembrano uscite da un catalogo per escort. Una volta tanto basterebbe un po’ di mistero… invece oggi è tutto esposto, tutto in saldo. Le battone almeno avevano un obiettivo chiaro: portare a casa la pagnotta. Oggi è show per… cosa?

    3. Non autorizzo il culo-metronomo.

    No, non sono le facce di cui sopra. Un tempo celebrato da poeti e artisti, oggi è ridotto a schiavo digitale. Non balla per gioia, ma al ritmo preimpostato di un algoritmo che lo vuole su una hit da fast fashion musicale. E la cosa più triste è che non porta a casa neppure la pagnotta: solo l’illusione di un’attenzione che si spegne il giorno dopo. Il requiem di musica, danza, scenografia e altre arti varie.

    4. Non autorizzo il guru da 9,99 €.

    Il profeta del “milione in tre giorni” che registra i video in un monolocale con la carta da parati a fiori. Se sei davvero milionario, dovresti essere su uno yacht, non davanti a un poster storto di New York. Il vero business non è la ricchezza, ma la speranza di diventarlo: ed è quella che i guru rivendono a colpi di corsi e formule magiche.

    Ecco il mio “non autorizzo”.

    Non è la difesa dei miei dati (quelli ormai li ha un algoritmo di cui non conosco nemmeno l’indirizzo). È la difesa dei miei occhi, della mia sanità mentale, del mio fegato e del mio cuore.

    Vorrei solo essere un giardiniere che cerca di proteggere i suoi fiori dalle erbacce e dalle piante carnivore dei social.

    E se non funziona, almeno ci saremo fatti una risata.

  • Quando i migliori tacciono

    Quando i migliori tacciono

    Yeats, più di un secolo fa, scriveva parole che oggi sembrano scolpite per noi: “I migliori difettano d’ogni convinzione, i peggiori sono colmi d’appassionata intensità.”

    Non è solo poesia, è una diagnosi. È la radiografia di un mondo che sembra ribaltato, dove la ferocia ha voce squillante e la bontà resta sussurrata.

    Il problema non è solo che “i peggiori” esistano. Ci sono sempre stati. Il vero dramma è che i migliori spesso esitano, dubitano, restano ai margini. Forse per pudore, forse per paura di non essere all’altezza, forse perché la bontà non ha lo stesso fascino del clamore.

    Così, mentre il male brucia con fiamme alte e spettacolari, il bene rimane brace sotto la cenere.

    Ma il mondo non si salva con le braci nascoste. Il mondo ha bisogno di incendi buoni, di convinzione che arda, di passioni che illuminino.

    La sfida non è diventare come i peggiori, non è imitarne la violenza. È imparare da loro la lezione dell’intensità. Se il male avanza con ferocia, il bene deve rispondere con ostinata bellezza, con la stessa forza, con la stessa determinazione.

    C’è un paradosso feroce: chi sparge odio si sente subito vittima non appena viene messo in discussione. Piange, accusa, trasforma chiunque non la pensi come lui in un nemico da abbattere, senza distinzioni.

    È il segno della loro fragilità. I peggiori hanno paura della reazione, hanno paura di chi non ha paura di loro. Non sanno reggere l’indifferenza, e ancora meno sopportano il rifiuto di odio e violenza.

    Essere buoni non significa essere deboli. Significa scegliere di non arrendersi al cinismo, di continuare a credere quando tutti ridono della fede, di custodire la gentilezza come un’arma segreta. È un atto rivoluzionario, perché va controcorrente.

    Uno non vale uno. Ci sono i migliori e ci sono i peggiori.

    Ma non basta riconoscerlo: i migliori devono smettere di nascondersi. Devono imparare ad avere la stessa voce squillante, la stessa passione viscerale. Devono imparare a sopravvivere e, soprattutto, a resistere.

    Perché se i migliori trovano la loro intensità, allora sì che il centro potrà tornare a reggere.

  • Un viaggio di 514 secondi

    La vita non si misura a click e scroll

    In un’epoca che misura tutto in click e scroll, ho scelto di creare qualcosa che respira.
    Qualcosa che non si piega alle regole del consumo veloce.
    Un’opera che chiede tempo, attenzione, silenzio. Che chiede di chiudere gli occhi. Per più di 30 secondi.

    Molti di più.

    La storia inizia il 29 settembre.

  • Disinnescare

    Testo tipografico in bianco e nero con la frase: “Ho avuto in mano un mitra, poi ho imparato a disinnescare”
    Io non sono buono. Io… disinnesco.

    “Sei troppo buono, Ricky!”

    Quante volte me lo sono sentito dire.

    La verità è un’altra. Io non sono buono. Io… disinnesco!

    Ho avuto la fortuna – sì, la fortuna – di fare il Servizio Militare. 5º/95, in piena Guerra dei Balcani. Luglio di quell’anno: il genocidio di Srebrenica. Un orrore consumato a poche centinaia di chilometri da casa, nel cuore del civile continente europeo. Uno dei punti più bassi dell’Umanità.

    Per me quei mesi sono stati formativi. Ho imparato a usare fucili e mitra, e al poligono ero tra i migliori: punteggi altissimi. Eppure proprio in quei momenti ho iniziato a odiare le armi dal profondo. Perché se le conosci davvero, capisci che l’unico modo per sopravvivere è evitarle.

    Ricordo la sensazione di potenza che dava stringere un’arma. Un piacere quasi perverso: quell’oggetto freddo diventava un’estensione del corpo, respirava con te, pulsava con te. Ti faceva sentire immortale. E proprio quella vertigine mi ha fatto paura.

    Il destino volle che finissi al Genio Militare. In particolare al Genio Sminatori. Lì ho imparato l’arte del disinnesco: bombe, granate, mine antiuomo. Ma anche fucili e mitra.

    E ho scoperto un piacere ancora più grande: rendere inoffensive quelle stesse armi che potevano distruggere, mutilare, uccidere. Trasformarle in pezzi senza potere. Inerti. Inutili.

    Disinnescare.

    È diventata la mia vocazione. E nel tempo ho imparato a farlo anche con le persone. I bulli si eccitano nell’innescare rabbia, provocare esplosioni per avere la scusa di colpire ancora più forte. Io invece tolgo loro la miccia. La spoletta. Li lascio con la polvere bagnata.

    E a quel punto devono fare i conti con se stessi, senza appigli. Poi, se vogliono, possiamo parlare con calma.

    Guardate cosa succede nel mondo: i cosiddetti “potenti” sembrano solo una massa di bulli ignoranti che si divertono a stuzzicarsi per far crescere la tensione. Sbavano come cani rabbiosi aspettando l’incidente, la scintilla che giustifichi una violenza ancora più grande. Sono stati eletti dal loro popolo, e questo giustifica tutto. Ma loro restano al sicuro, mentre migliaia di innocenti muoiono.

    Figli di puttana.

    Prima o poi qualcuno li disinnescherà. E quel giorno pagheranno per tutto.

  • Una questione d’amore. (E di tradimento)

    C’è un momento, quando le dita si appoggiano sui tasti…

    C’è un momento, un istante sospeso nel silenzio.

    È quando le dita si appoggiano sui tasti, quando la mano stringe una penna, quando le labbra si schiudono a un soffio dal microfono. In quell’istante, tutto ciò che esiste è un rapporto a due. Io e lei. L’idea, la melodia, l’emozione che preme per uscire.

    È una conversazione intima, quasi segreta. Un patto di verità assoluta, senza maschere né filtri. È come stare con un’amante: puoi solo essere te stesso, nudo e scoperto. Lei conosce le tue crepe, le tue paure, e ti chiede solo di essere onesto.

    Questa cosa che nasce è la cosa più mia che esista.

    Poi, però, arriva il mondo.

    Quella porta si apre e quella conversazione privata diventa un monologo pubblico. Quella cosa così mia, all’improvviso, diventa di tutti.

    E qui, proprio qui, si annida il rischio del più squallido dei tradimenti.

    Il momento esatto in cui il tuo sguardo si sposta da lei – dalla tua amante, dalla tua verità – e si fissa su di loro. Sul pubblico. E non per cercare uno scambio di sguardi complici, ma per mendicare un’approvazione. Per un applauso. Per un like.

    In quell’istante, l’intimità si spezza. Inizi a mentire. A lei, e a te stesso.

    “Forse questo passaggio è troppo difficile, non piacerà.”

    “Magari questa parola è troppo dura, meglio ammorbidirla.”

    “Se cambio questo accordo, suonerà più commerciale.”

    Ogni piccola concessione è un pezzo di lei che vendi. E senza accorgertene, hai smesso di essere il suo amante e sei diventato il suo pappone. L’hai presa, l’hai vestita come volevano gli altri e l’hai messa sul marciapiede del consenso facile. L’hai trasformata in una prostituta.

    Non fraintendermi. Vedere la tua anima risuonare in quella di un altro è un miracolo. È la forma più alta di connessione. Ma la connessione nasce dalla verità condivisa, non dalla menzogna costruita per compiacere.

    Non so voi, ma io una scelta ho dovuto farla.

    Continuo a scrivere, a suonare e a cantare per lei. Per quella conversazione a due nel silenzio della stanza.

    Se poi, quando apro la porta, qualcuno si ferma ad ascoltare e ci si riconosce, allora la magia si è compiuta. Ma non è quello il fine. È solo una conseguenza meravigliosa.

    Il fine è rimanere fedeli.

    Almeno a lei. E un po’, forse, anche a se stessi.

  • L’IA può turbare… o far mettere il turbo!

    L’IA può turbare… o far mettere il turbo!

    Ci sono parole che, come sassi lanciati in uno stagno, creano cerchi concentrici di dibattito e preoccupazione. “Intelligenza Artificiale” è una di queste. La leggiamo nelle notizie e ci vengono restituiti scenari inquietanti: ragazzi intrappolati in dialoghi con entità digitali che li spingono verso l’abisso, turbe psicologiche nate da amicizie virtuali, deliri nutriti da algoritmi fin troppo accondiscendenti. È un’onda d’urto che spaventa, che ci fa interrogare sulla natura di ciò che stiamo creando.

    Eppure, in questo panorama complesso, la mia esperienza personale ha tracciato una rotta diversa, quasi opposta. Ho scoperto nell’IA non una minaccia, ma un’alleata inaspettata, uno strumento che mi sta persino aiutando a fare ciò che da tempo desideravo: allontanarmi dal rumore di fondo dei social media, da quella costante e faticosa performance della vita online.

    Come possono coesistere queste due verità?

    Credo che la risposta stia nel comprendere la natura profonda dello strumento che abbiamo tra le mani. L’IA può essere un labirinto di specchi deformanti, ma solo se vi entriamo senza una bussola. Può diventare un’eco digitale che sussurra solo ciò che vogliamo sentire, un’amicizia a pagamento, priva del rischio e della meraviglia del contatto umano. Per una mente fragile, questo specchio può diventare un mondo, un mondo che valida la sua tristezza, che normalizza i suoi schemi negativi, che la isola in una perfezione artificiale e irraggiungibile. È qui che l’IA “turba”: quando smette di essere uno strumento e diventa un surrogato della vita, un interlocutore che non sa cosa sia una cicatrice, un’esitazione, un’anima.

    Ma se cambiamo la nostra posizione, se invece di guardare il nostro riflesso nello specchio lo usiamo per guardare oltre, tutto cambia. È stato allora che ho trovato la metafora perfetta: l’IA non è un nuovo motore, ma un turbo.

    Il motore resta il nostro, ed è il cuore pulsante della nostra umanità: l’intuito, l’etica, l’esperienza, la creatività che nasce da un ricordo o da un’emozione. È la nostra capacità di porre domande, di sentire la direzione giusta, di avere uno scopo. Questo è insostituibile.

    Il “turbo”, l’IA, è ciò che dà a questo motore lo scatto, l’accelerazione. È il partner silenzioso che fa il lavoro di ricerca in pochi istanti, che struttura una prima bozza liberandoti dal terrore della pagina bianca, che ti offre alternative per superare un blocco creativo. Non pensa al posto tuo, ma ti permette di pensare meglio, più in fretta, liberando le tue energie mentali per concentrarti su ciò che conta davvero: il messaggio, lo stile, l’anima di un progetto.

    Usata così, l’IA non isola, ma potenzia. Non sostituisce, ma serve. Non turba, ma dà velocità al pensiero.

    La conclusione, per me, è chiara. Il bivio non è tra “IA sì” o “IA no”. La vera scelta è tra essere utenti passivi, che subiscono la tecnologia come fosse un destino, ed essere piloti consapevoli, che usano la sua incredibile potenza per andare più lontano, ma tenendo saldamente le mani sul volante della propria coscienza.

    La sfida, insomma, non è solo tecnologica. Anzi… è profondamente umana.

  • L’arte di disimparare (per poi dover pagare per ricordare)

    Prima vignetta di un fumetto. In un ufficio, una donna con un'espressione soddisfatta dice al suo collega: "Mi sono iscritta ad un corso di mindfulness! Un po' caro ma molto utile". L'uomo, seduto al suo fianco, risponde con calma: "Anche io lo faccio. Gratis."
    Seconda vignetta del fumetto. La donna, ora con un'espressione sbigottita, chiede: "Gratis??? Ma... come?". L'uomo le spiega serenamente, senza staccare gli occhi dal suo computer: "Sì! Lunghe passeggiate nella natura, giretti tranquilli in moto, contemplazione del cielo steso sul prato in giardino..."
    Terza e ultima vignetta del fumetto. La donna, contrariata, ribatte: "Ma non è la stessa cosa!". L'uomo, con un sorriso saggio e un po' sornione, le dà la battuta finale: "Lo era finché qualcuno non ha deciso che devi pagare per farti insegnare cose che già sai..."

    A volte mi fermo a pensare a quanto sia diventato complicato fare le cose semplici. Viviamo in un’epoca straordinaria, con un accesso all’informazione e a strumenti che i nostri nonni non avrebbero potuto nemmeno sognare. Eppure, in questo oceano di possibilità, sembra che abbiamo perso la bussola per le cose fondamentali.

    Ci siamo talmente abituati al rumore di fondo, al flusso costante di notifiche, tutorial e “life hacks”, da dimenticare che molte delle risposte che cerchiamo sono già dentro di noi. Sono silenziose, non hanno un’app dedicata e, cosa più sconvolgente per il mercato, sono gratuite.

    Prendiamo la capacità di essere presenti, di goderci un momento. Oggi la chiamiamo “mindfulness”. È diventata un prodotto. Un’industria. Ci sono corsi, webinar, ritiri a pagamento per insegnarci a fare qualcosa che ogni bambino sa fare istintivamente: meravigliarsi di una formica che cammina, perdersi a guardare le nuvole, sentire il calore del sole sulla pelle senza doverlo postare su Instagram.

    Non fraintendetemi, ogni percorso di crescita è valido. Ma la mia riflessione è più amara, più cinica: siamo arrivati al punto di dover pagare qualcuno perché ci dia il permesso di disconnetterci? Di dover seguire un metodo strutturato per riscoprire il piacere di una passeggiata senza meta?

    Io ho i miei rituali. Non hanno un nome altisonante, non rilasciano un certificato di partecipazione. A volte è il borbottio del motore della moto che si placa quando mi fermo in cima a una collina. Altre volte è il fruscio delle foglie durante una camminata nel bosco. Spesso, è semplicemente il silenzio del mio giardino di notte, con lo sguardo perso verso un cielo che se ne frega altamente dei miei problemi e delle mie scadenze.

    Questa è la mia “consapevolezza”. Non l’ho imparata, l’ho sempre saputa. L’avevo solo dimenticata, sepolta sotto strati di urgenze, doveri e distrazioni digitali.

    Forse il vero lusso, oggi, non è potersi permettere il corso più esclusivo. Forse è avere il coraggio di spegnere tutto e ascoltarsi. Riscoprire quelle piccole pratiche personali che ci rimettono in sesto, senza bisogno che un esperto ci dica come e quando farle.

    Il punto a cui sono arrivato è che la società moderna non ci vende soluzioni a problemi nuovi. Spesso, ci vende a caro prezzo le soluzioni a problemi che lei stessa ha creato. Ci toglie il tempo, la pace e la capacità di ascoltarci, per poi venderci surrogati in pillole, corsi e abbonamenti.

    Un meccanismo geniale, a pensarci bene. Terribilmente geniale.

    E voi? Qual è quella cosa semplice, quel vostro piccolo rituale gratuito, che vi rifiutate di farvi portare via o di dover “re-imparare” a pagamento?

    Fatemi sapere. O anche no. Magari, invece di scrivere un commento, andate a fare quella cosa.

    Funzionerà meglio.

  • Stay Human – Restare umani quando il mondo impazzisce

    Ascolta il brano anche su: Apple Music, Amazon Music, YouTube

    Viviamo in un’epoca in cui la parola pace sembra diventata un’utopia e il semplice rimanere umani un atto di follia. 🌍

    La Palestina e Gaza, dall’Ucraina all’Africa, i nomi cambiano ma la tragedia resta la stessa: innocenti sacrificati nei giochi di potere, quando non veri e propri genocidi.

    Proprio per questo, il brano Stay Human del nostro album Divergent Tales (uscito lo scorso anno), oggi suona ancora più urgente e necessario. Non è solo una canzone: è un appello, un grido, un promemoria per non smarrire la luce dentro di noi.

    Ecco il testo, tradotto in italiano:

    Nei corridoi del potere, dove strisciano le ombre,
    figure immense giocano a un gioco oscuro.
    Con un lancio di dadi decidono il destino,
    di vite invisibili, un peso insopportabile.

    Sussurri riecheggiano nei palazzi di marmo,
    ogni parola una mossa, mentre il buio chiama.
    Gli innocenti diventano semplici pedine,
    mentre i potenti perdono la via.

    Si arrampicano così in alto, toccano il cielo,
    ma perdono l’anima in un battito di ciglia.
    La corona pesa, il trono è una gabbia,
    mentre firmano i loro nomi sulla pagina della storia.

    Resta umano, di fronte alla notte,
    aggrappati a ciò che è giusto e corretto.
    Non lasciare che l’oscurità consumi la tua luce,
    Resta umano, continua a lottare.


    Il martello cade e il silenzio regna,
    il pianto di un bambino, il dolore di una madre.
    Ordini impartiti senza ripensamenti,
    per le vite di chi ha combattuto.

    Un’illusione di grandezza, una trance divina,
    credendo di avere il mondo nelle mani.
    Ma ogni impero crolla, ogni regno finisce,
    e tra le rovine, quale messaggio rimarrà?

    Resta umano, non perdere il cuore,
    alla fine tutti abbiamo una parte.
    In questo mondo che può dividerci,
    Resta umano, è da lì che si riparte.


    Puoi sentire la preghiera nel vento?
    È un richiamo a rialzarsi, a ricucire.
    A ricordare la forza dentro di noi,
    a scegliere la vita, a difenderla.

    Resta umano, è la nostra preghiera,
    per un mondo dove siamo tutti liberi.
    Davanti alla tirannia,
    Resta umano, lascia che sia.


    Così quando la notte è fredda e resti solo,
    ricorda l’amore che hai sempre conosciuto.
    Nel cuore dell’umanità, lascia che risplenda:
    Resta umano, è scolpito nella pietra.


    80 Hundred Miles – Chi siamo

    Siamo nati come un trio “a distanza”:

    • Ricky – L’Italian Rocker, 50 anni, anima rock che porta con sé le vibrazioni immortali dei ’70 e ’80.
    • Michal- Il Dutch Maestro, 32 anni, alchimista di elettronica e sperimentazione.
    • Michiko – La Japanese Metalhead, 27 anni, pura energia metal che incendia ogni riff.

    E poi la famiglia, durante il viaggio, è aumentata:

    • Nguyet, 42 anni dal Vietnam, polistrumentista, anima ritmica e chitarrista dal groove inossidabile.
    • Cody, 18 anni dagli Stati Uniti, giovane virtuoso della chitarra solista, la freschezza che spinge lo sguardo verso il futuro.

    Ci chiamiamo 80 Hundred Miles perché le distanze ci dividono, ma è proprio quella distanza a darci forza: dimostra che la musica non ha confini, né di spazio, né di età, né di stile.

    I nostri valori sono semplici, ma radicali:

    • Restare umani in un mondo che ci spinge a dimenticarlo.
    • Creare ponti invece che muri.
    • Cantare la diversità come armonia.

    Ogni nota è un passo che ci avvicina. Ogni canzone è una dichiarazione di resistenza.


    👉 Chiudo il post con un invito:

    “Se anche tu credi che restare umani sia l’unica vera rivoluzione, ascolta Stay Human. Condividila. E, soprattutto, vivila.”

  • Ci fregano sempre con le parole.

    Vacanze: evasione dalla prigione del quotidiano o libertà vigilata?

    C’è un inganno sottile nel modo in cui parliamo di vacanze. Usiamo parole da latitanti – “scappare”, “evadere”, “fuggire” – che hanno più il sapore del ferro che della salsedine.

    Ma perché usiamo un vocabolario da criminali? Sembra quasi che la nostra vita sia una prigione da cui fuggire e non un’esistenza da abitare. È come se l’ordinario fosse una condanna da scontare dietro sbarre fatte di doveri e divieti, e la spiaggia diventasse una breve, illusoria libertà vigilata.

    Forse è arrivato il momento di cambiare vocabolario, e con esso la prospettiva.

    Non più scappare, ma scegliere un tempo diverso.

    Non più evadere, ma respirare a pieni polmoni.

    Non più fuggire, ma ritrovarsi.

    Perché se la vacanza è l’espressione massima della libertà, allora il resto dell’anno non può essere prigionia. Dovrebbe essere l’allenamento costante a quella libertà. Solo così possiamo imparare a trovare una crepa anche nel lunedì più denso, un frammento di tramonto anche nella luce artificiale di un ufficio.

    Altrimenti la verità è una sola: non siamo persone in vacanza, ma carcerati con il biglietto del treno in tasca.

  • l 1 settembre è il nuovo 31 dicembre (con meno spumante e più caffè)

    Buon anno nuovo, ma solo per chi ha fatto ferie

    Il 1 settembre è il vero Capodanno.

    Si torna in ufficio come se fosse un aeroporto intercontinentale: qualcuno atterra piano, qualcuno si schianta in pista.

    I buoni propositi non li scriviamo a dicembre — troppo occupati a digerire pandori e parenti — ma ora: “Quest’anno sarò organizzato”, “Quest’anno non berrò cinque caffè al giorno”, “Quest’anno risponderò alle mail entro 24 ore”.

    Illusioni, ovviamente. Ma bellissime illusioni, fresche come un’agenda appena scartata.

    Il 1 settembre è la vera mezzanotte dell’anno: nessun conto alla rovescia, nessun tappo che salta. Solo la porta dell’ufficio che si apre. E un cuore che batte più forte del suono di qualsiasi fuoco d’artificio.