Autore: Ricky

  • Mr. Felicità (e il peso invisibile del sorriso).

    Mr. Felicità (e il peso invisibile del sorriso).

    Mantenere il sorriso nonostante tutto… nonostante tutti…

    “Oh! Guarda chi c’è! Mr. Felicità! Ciao caro, tutto bene? Ma che te lo chiedo a fare? I tuoi colleghi arrivano e piangono e si lamentano sempre. Tu sei sempre tranquillo e sorridente! Beato te che la vita ti va sempre bene. Che problemi puoi mai avere tu?

    Ma che ne sai tu? Che ne sai delle cicatrici impresse sulla mia pelle, e sotto pelle, che preferirei non avere nè ricordare?

    Che ne sai tu del dolore che ho dovuto vivere fino in fondo, senza sconti, comprendendolo e accettandolo?

    Che ne sai dei mostri con cui sono dovuto venire a patti per non farmi divorare l’anima?

    Che ne sai del lavoro immane che ho fatto su me stesso per superare i limiti mentali che mi frenavano, per essere all’altezza ed accettarmi quando nemmeno chi avrebbe dovuto credere in me lo faceva?

    Che ne sai che quella di affrontare la vita con il sorriso concentrandomi sulla sua bellezza è una mia precisa scelta, voluta, cercata, allenata e che richiede un continuo e smisurato uso di forze?

    Che ne sai del fatto che il mio cuore lo apro solo a pochissime selezionate persone che si contano sulle dita di una mano, persone veramente speciali che riescono a vedere la mia anima, che non hanno paura di scendere nelle profondità… perché mi sono rotto e stufato della superficialità e delle parole a vanvera?

    Che ne sai del mio viaggio, della mia ricerca curiosa che non finisce mai e mi auguro mai finisca?

    Che ne sai che quella che tu vedi come una montagna invalicabile io non l’abbia già scalata e discesa innumerevoli volte?

    Taci, per favore…

    “Tutto bene si, grazie! BUON NATALE! 😃

  • Natus Est: Cronaca di un Esperimento Diventato Album (Quasi per Caso)

    Natus Est: Cronaca di un Esperimento Diventato Album (Quasi per Caso)

    Natus Est è la Messa di Natale di Cohors Petrae in chiave metal.
    La copertina di Natus Est

    Come Si Arriva a Fare una Messa di Natale Metal (Senza Averlo Pianificato)

    Non è che un giorno mi sono svegliato pensando “farò una Messa di Natale in chiave metal e sarà epica”. È andata diversamente. Qualche anno fa ho iniziato a giocare con l’idea di prendere testi liturgici — quelli che senti a Messa, quelli in latino che non capisci mai fino in fondo — e tradurli in musica moderna. Non per dissacrare, ma per capire.

    I primi esperimenti erano piccoli: un “Gloria In Excelsis Deo”, un “Kyrie”. Li ho fatti ascoltare a qualche persona, a qualche amico musicista, anche ad un paio di sacerdoti. E invece di storcere il naso, hanno reagito bene. Molto bene. Passo dopo passo, brano dopo brano, “Natus Est” ha preso forma quasi da solo.

    La Domanda Che Ha Cambiato Tutto

    L’anno scorso, come “Cohors Petrae”, abbiamo pubblicato “È Nato Il Re” come singolo. Ha funzionato meglio del previsto. E “Otto Giorni”, con la Settimana Santa vissuta da dentro, ci ha regalato la soddisfazione di aver portato molte persone dentro al mistero della Resurrezione. E lì ci siamo posti una domanda semplice ma scomoda: in un periodo in cui tutti parlano di “spirito”, chi lo sente davvero? Gente che scorre feed, consuma contenuti, usa hashtag natalizi. Ma sentire — sentire davvero — è un’altra cosa.

    Abbiamo deciso di provare a farlo SENTIRE noi, quel mistero. Non attraverso candeline profumate o playlist ambient, ma con chitarre distorte e orchestrazioni sinfoniche. Perché se ci pensi, Dio che si fa carne in una stalla — non in un palazzo, non con onori, ma in una stalla — è oggettivamente la cosa più dirompente, più rumorosa, più sovversiva della storia. Un terremoto cosmico. E i terremoti non si sussurrano.

    12 Brani, Una Liturgia Intera

    “Natus Est” segue la struttura completa della Messa di Natale. Non è un concept album inventato: è la liturgia vera, quella che la Chiesa celebra da secoli, tradotta in metal progressivo:

    1. È Nato Il Re
    2. Kyrie
    3. Gloria In Excelsis Deo
    4. Oggi È Nato Per Noi Il Salvatore
    5. Alleluia
    6. Credo In Unum Deum
    7. Pane E Vino
    8. Sanctus
    9. Padre Nostro
    10. Agnus Dei
    11. Magnificat
    12. Nasce Il Salvatore

    Ogni brano abita una tensione: rispetto totale per la fede, libertà totale nell’espressione. Testi latini e italiani, chitarre che distorcono ma non tradiscono, blast beat che servono il mistero invece di coprirlo.

    Una Natività Che Nessuno Vede

    La copertina dice quello che l’album prova a fare: una Natività ambientata in una metropolitana moderna, persone che camminano distratte con i telefoni in mano, e lì, a terra, la Sacra Famiglia ignorata. È il mondo in cui viviamo. Connessi ma assenti. Parliamo di spirito ma non lo ascoltiamo.

    Questo album non risolve nulla. Non pretende di convertire nessuno. È solo un tentativo — nostro, personale, imperfetto — di amplificare qualcosa che rischia di perdersi nel rumore di fondo. Di ricordare che quella nascita non fu un evento dolce e silenzioso. Fu uno scandalo.

    Non Vogliano Offendere Nessuno.

    Abbiamo fatto quello che sentivamo andasse fatto, nel modo in cui andava fatto. È un album che rispetta la liturgia e la fede, ma cerca una lingua nuova per dirle. Dodici brani che provano a far sentire — davvero sentire — quel mistero che rischia di perdersi nel rumore di fondo.
    Non so se funzionerà, se arriverà alle persone giuste, se verremo scomunicati, se qualcuno lo ascolterà dall’inizio alla fine come andrebbe ascoltato. Ma è lì. E per noi, questo basta.

    Dove Ascoltare

    “Natus Est” è disponibile su:

    Spotify

    Apple Music

    YouTube

    Amazon Music

    Pandora

    Tidal

    Se ti interessa, ascoltalo come si ascolta una Messa: dall’inizio alla fine, senza saltare. Oppure no, fai come senti. Ma sappi che è lì, se lo vuoi.

  • Tu non hai figli, cosa vuoi saperne (e altre frasi che proteggono solo chi le dice)

    Tu non hai figli, cosa vuoi saperne (e altre frasi che proteggono solo chi le dice)

    Disegno a china bianco e nero di un bambino triste isolato sotto una campana di vetro con lo smartphone in mano, mentre fuori altri bambini giocano a pallone, si sporcano e vivono esperienze reali.
    Bambino sotto una campana di vetro, mentre fuori c’è la vita vera.

    C’è una frase che funziona come un lucchetto.
    La senti e capisci subito che non è un dialogo: è una serranda abbassata con la scusa della prudenza.

    “Tu non hai figli, cosa vuoi saperne.”

    È vero: non ho figli.
    La vita non mi ha fatto questo regalo. Ma mi ha regalato una posizione privilegiata da “amico adulto” per molti ragazzi e ragazze. Quello con cui è più facile confidarsi proprio perché non è né un genitore né un professore, ma con cui si condivide una passione per qualcosa.
    Ed ho occhi per vedere, orecchie per sentire e una cosa che ultimamente sembra dare fastidio: una testa allenata a pensare. PENSARE, non “credere di sapere”…

    E quando usi davvero la ragione, succede una cosa strana: riesci a guardare le cose senza quell’impasto emotivo che rende tutto intoccabile. Non sei “contro” i genitori. Non sei “contro” la paura.
    Sei contro il fatto che la paura si travesta da amore e passi inosservata.

    Perché sì: proteggere è un verbo nobile.
    Ma c’è un punto—sottile, invisibile—oltre il quale proteggere diventa negare.
    Negare a un figlio di vivere.
    Di rischiare.
    Di sbagliare.
    Di imparare dai propri errori.
    E soprattutto: di appassionarsi a qualcosa.

    Che poi è il grande paradosso.
    In teoria lo vuoi al sicuro.
    In pratica lo stai lasciando senza benzina interiore.

    Se un ragazzo non può sporcarsi le mani con qualcosa che lo accende (musica, sport, amicizie, una sfida vera, una passione che lo prenda a schiaffi e poi lo rimetta in piedi), prima o poi cercherà una scintilla altrove.
    E verrà il giorno in cui avrà bisogno di sentirsi vivo: di trasgredire, di mettersi in gioco, di dimostrarsi di valere qualcosa.
    E lì la vita NON CHIEDERÀ a te il permesso.

    Perché qualcuno, prima o poi, gli proporrà “la cosa sbagliata”.

    E se tuo figlio non ha mai avuto spazio per sbagliare in piccolo—senza essere umiliato, senza essere salvato sempre, senza essere assolto a prescindere—rischia di imparare a sbagliare direttamente in grande.
    Sotto la campana di vetro si cresce puliti.
    Ma non si cresce forti.

    E poi c’è un’altra cosa che fa danni, spesso insieme alla campana: lo scudo.
    Quello del “mio figlio non può avere torto”.
    Quello del “è stato provocato”.
    Quello del “non capite com’è fatto”.
    Capisco eccome.
    È fatto come tutti: confuso, fragile, potentissimo.
    E ha bisogno di due cose che oggi sembrano quasi eretiche:

    conseguenze, quando sbaglia davvero

    fiducia, quando prova davvero

    Non è cattiveria. È educazione sentimentale alla realtà.
    Perché la realtà non è gentile.
    Ma può diventare bellissima, se uno impara a starci dentro senza implodere al primo urto.
    Quante volte avrei voluto dirlo, questo, a quei genitori che tengono i figli sotto una campana di vetro: che li difendono anche quando hanno torto marcio, che li proteggono da tutto, persino dal peso sano di una responsabilità.

    E no: non sto parlando del “lasciamoli allo sbando”.
    Sto parlando del contrario: guidarli mentre rischiano.
    Stare accanto senza sostituirsi.
    Essere rete, non gabbia.
    Perché amare non è impedire la caduta.
    Amare è insegnare come ci si rialza.

  • Fisica, musica, una nipote e tanti giovani non pigri.

    Oltre 90 studenti del Liceo Marchesi sfidano i luoghi comuni sui giovani. Un concerto a Murelle che dimostra come la passione (e la musica) possa rompere ogni pregiudizio.
    I giovani musicisti del Liceo Marchesi

    Poche cose sono in grado di hackerare il nostro cervello come la musica. Di aprirlo come una scatoletta di tonno e ribaltarne il contenuto.

    Se ci pensate con freddezza scientifica, è un meccanismo assurdo. Un pezzo di legno morto e metallo freddo vibra perché sfiorato da un crine di cavallo (o percosso, o pizzicato). Queste vibrazioni spostano l’aria, che prende a schiaffi delicati gli ossicini dentro le nostre orecchie. Il cervello decodifica tutto questo e… bam.
    Improvvisamente piangi. O ridi. O ti senti invincibile.
    Stai ricevendo un file zip emotivo compresso secoli fa da un tizio con la parrucca dall’altra parte del mondo, e il tuo sistema operativo lo sta scompattando in tempo reale, colpendoti dritto allo stomaco.

    Un meccanismo di una complessità immane, eppure capace di annullare lo spazio e il tempo in un istante.

    Che dannata meraviglia.
    Ieri questo miracolo della fisica si è ripetuto. Sono stato a Murelle, nell’Alta Padovana, nella Chiesa di Santa Maria Assunta. Un gioiellino barocco che profuma di storia, con i suoi stucchi e quel pavimento in marmo che ha visto passare generazioni.

    Ma non ero lì per l’architettura. Ero lì per mia nipote Emma e per il Concerto di Natale del Liceo Musicale Marchesi.
    Davanti a me non c’erano “ragazzini”. C’erano più di 90 professionisti in erba, dai 14 ai 19 anni. Novanta anime armate di archi, fiati, percussioni, arpe e pianoforte.
    Quando hanno attaccato, la chiesa non era più una chiesa. Era un oceano.
    Un coro che sapeva essere brezza leggera un attimo prima, per poi diventare tempesta e spettinarti l’anima quello dopo.

    Ho guardato Emma. Ho guardato i suoi compagni. La concentrazione, il sudore, gli sguardi d’intesa. Lì in mezzo, tra una battuta e l’altra, stavano costruendo mondi.
    E qui mi sale il cinismo, ma verso il bersaglio giusto.
    Quante volte sentiamo dire che i giovani d’oggi non hanno voglia di fare niente? Che sono pigri, senza nerbo, persi dietro a uno schermo?
    Bullshit. Tutte cazzate.

    La mia esperienza — quella di ieri sera, ma anche quella col piccolo coro che dirigo — mi dice un’altra verità. Una verità scomoda per gli adulti mediocri: i ragazzi non sono spenti. Siamo noi che spesso non sappiamo accenderli.
    Se questi “giovani sdraiati” hanno la fortuna di incrociare adulti capaci di trasmettere VERA PASSIONE, di trattarli con rispetto e di sfidarli con la bellezza, loro non solo si alzano. Loro spaccano il mondo.
    I ragazzi del Marchesi ieri non stavano “facendo un compitino”. Stavano rompendo le convenzioni.

    Un grazie gigante va a quei professori che non timbrano il cartellino, ma vivono la loro materia. Quelli che, come ieri, dirigono non con la bacchetta, ma con il cuore in mano.
    La musica è fisica, sì. Ma quello che ho visto ieri è pura alchimia umana. E finché ci sarà, il futuro è in buone mani.

  • Lezioni di democrazia… da chi non sa cosa sia.

    Trump e la civiltà europea
    Musk e l’Europa quarto Reich

    Ero a letto, mezzo addormentato, e ho realizzato che la politica mondiale è diventata più assurda dei miei già assurdi sogni.

    Il pulpito viene da chi ha incendiato la chiesa

    Non serve essere analisti geopolitici per notare che qualcosa non torna. È la classica storia della pagliuzza e della trave, ma elevata a potenza nucleare.

    Da una parte abbiamo l’amministrazione americana che, nel suo ultimo documento sulla sicurezza nazionale, si preoccupa della “fine della civiltà” europea. Detto da chi, solo pochi anni fa, ha ispirato un assalto al cuore della propria democrazia a Capitol Hill, suona come un piromane che ti critica per aver installato un sistema anti-incendio.

    Dall’altra c’è il “Genuis” di X. L’uomo che ha trasformato la piazza digitale globale in un far west deregolamentato, dove l’odio è engagement e la verità è opzionale. Lui definisce l’Unione Europea — nata letteralmente sulle ceneri della guerra per impedire nuovi totalitarismi — il “Quarto Reich”

    La chiamano proiezione psicologica. Io la chiamo, tecnicamente, una gigantesca presa per il culo.

    La morte della vergogna

    Ciò che mi colpisce, mentre mi rigiro nel letto cercando di svegliarmi del tutto, non è tanto l’accusa in sé. È l’assenza totale di imbarazzo.

    Viviamo nell’era della “post-vergogna”. Non importa se il tuo pulpito scricchiola o se il tuo social network è diventato una cloaca a cielo aperto: l’importante è urlare l’accusa più grossa per primi.

    Se accusi l’altro di essere un dittatore o un fallimento di civiltà, nessuno avrà il tempo di notare che tu stai smantellando i diritti civili o licenziando i moderatori che dovrebbero proteggere la democrazia.

    Svegliarsi (ma per davvero!)

    Ho fatto queste vignette mezzo addormentato, ma forse è proprio il sonno della ragione che genera questi mostri. O forse, l’unico modo per restare sani di mente è prenderla con una risata amara, aspettare che questi (e molti altri…) virus umani facciano il loro decorso.

    La vera sfida, però, non è sopravvivere ai loro danni. È non farsi infettare dal loro odio mentre li guardiamo. Perché il rischio più grande non è la fine della civiltà. È finire per assomigliargli… e diventare a nostra volta mostri.

  • Il Fascismo, l’Herpes e il Paradosso della Cura: una teoria viscerale

    Macchia di ruggine su acciaio inox che simboleggia il fascismo come malattia latente

    L’urgenza di una diagnosi scomoda

    Perdonate la franchezza. A volte la filosofia politica è troppo pulita, troppo accademica. Si perde nei salotti mentre la realtà accade per strada.

    Stavo riflettendo sulle recenti polemiche riguardanti i movimenti antifascisti, quelli finiti nelle liste nere dell’antiterrorismo americano, e mi sono fatto l’idea che stiamo sbagliando approccio. Ci arrovelliamo sul “Paradosso della Tolleranza” di Karl Popper, ci chiediamo se sia lecito tollerare gli intolleranti, ci perdiamo in disquisizioni etiche.

    Io ho una teoria diversa. Una teoria “terra terra”, forse volgare, ma credo sia tremendamente efficace.

    Le ideologie estremiste (tutte, nessuna esclusa) sono come l’Herpes Genitale.

    Ora vi spiego questa metafora, che sono sicuro vi sta facendo storcere il naso. Ma forse é l’unica che spiega davvero la storia del Novecento e le sue propaggini fino ad oggi.

    La Latenza: il virus che dorme nei nervi

    Se avete avuto modo di studiare il pensiero di Umberto Eco, saprete che parlava di “Ur-Fascismo”, il Fascismo Eterno. Mentre Primo Levi, che l’inferno lo ha visto da dentro, parlava di un “bacillo” che non muore mai.

    Ecco, ora non voglio certo mettermi a confronto con questi due giganti, ma piuttosto unire i concetti e tradurli da un punto di vista… biologico. Il punto è questo: sai che ce l’hai.
    È lì. Magari rimane latente per anni, decenni. La società sembra sana, la democrazia funziona, ci sentiamo tutti civili e vaccinati. Ma il virus non se n’è andato. Si è solo nascosto nel sistema nervoso della società. Dorme nelle nostre paure, nel nostro egoismo, nella nostra ignoranza.

    Tollerarlo in questa fase non è una scelta etica: è una necessità fisiologica. Non puoi “sradicarlo” completamente senza uccidere l’ospite, senza instaurare un controllo talmente totalitario sul pensiero da diventare tu stesso il male che combatti.

    Quindi convivi. Sai che c’è, e speri che non si svegli.

    Il “Trigger”: quando le difese crollano

    Ma l’herpes non esce a caso. Esce quando sei debole.
    Quando il corpo sociale è sotto stress, quando l’economia crolla, quando la sfiducia nelle istituzioni tocca il fondo, ecco che le difese immunitarie si abbassano.

    È lì che il virus “mette fuori la testa”.

    Smette di essere un’idea latente e diventa un sintomo fisico: violenza, sopraffazione, squadrismo. Che si vesta di nero, di rosso o di qualsiasi altro colore, il meccanismo biologico è lo stesso.

    Bertolt Brecht diceva che “il ventre che ha partorito la bestia immonda è ancora fecondo”. Aveva ragione. Il ventre siamo noi quando smettiamo di ragionare e iniziamo ad avere paura.

    La Cura d’Urto: perché la tolleranza ha un limite

    Ed è qui che la mia teoria scivola via sul paradosso di Popper con il pragmatismo di chi deve risolvere un problema.

    Se tolleri la fase latente (perché non hai scelta), non puoi permetterti di tollerare la fase acuta.

    Appena il virus si palesa, appena diventa piaga, devi combatterlo. Subito!

    Non puoi dire “ma sì, è solo una piccola bolla”. Perché quella bolla è contagiosa. Se la lasci fare, diventa necrosi. Può portare alla morte dell’organismo democratico.

    In quel momento, la tolleranza è complicità. In quel momento serve l’antivirale, serve la medicina amara. Bisogna intervenire prima che diventi epidemia.

    Teniamo alte le difese

    Questa visione è cinica? Forse.

    Vorrei però che fosse un richiamo alla responsabilità. Smettiamola di cercare la purezza assoluta, non esiste. Esistono solo organismi con un buon sistema immunitario e organismi immunodepressi.

    L’antifascismo, quello vero, non è una bandiera da sventolare solo nelle feste comandate. È l’igiene quotidiana della democrazia. È mangiare sano, dormire bene, non stressare il corpo sociale. È cultura, è memoria, è bellezza.

    Cerco la bellezza ovunque, e se non la trovo la creo. Ma so anche che la bruttezza è un virus che non dorme mai davvero. Sta a noi decidere se lasciarlo vincere o tenerlo a bada, giorno dopo giorno.

  • Tre anni sotto pelle.

    Tre anni sotto pelle.

    Storia di un’ispirazione ritrovata

    Ieri Facebook mi ha fatto vedere un ricordo: io nel mio studio artigianale, chitarra in mano, che suonavo l’inizio di qualcosa di nuovo. GarageBand aperto, effetto chitarra imbarazzante, e quella didascalia romantica sulle molecole dell’aria che vibrano. Di quelle note me ne sono dimenticato quasi subito.
    O almeno credevo.

    Il Momento

    Quando ho rivisto quel video, è successo qualcosa di strano. Non ho pensato “ah, carino”. Ho sentito il brano finito. Tutto. Mixato, con gli effetti giusti, ogni parte al suo posto. Come se i tre anni nel mezzo non fossero mai esistiti, come se quel suono grezzo del 2022 fosse solo l’anteprima di una cosa che esisteva già da qualche parte e dovevo solo andare a prenderla.
    Non ci ho pensato due volte. Sono corso in studio, ho aperto Logic Pro, e l’ho fatto. Quello che vedevo, quello che sentivo, quello che era già lì.

    Semini un’idea

    Tre anni fa quelle note erano imperfette. Registrate male, suonate peggio, ma dentro c’era qualcosa. Lo sentivo. Quella vibrazione sottopelle di cui scrivevo nella didascalia — non era retorica. Era vera. C’era un’emozione che cercava forma, e io stavo provando a darle voce.
    Poi è arrivata la vita. Altri progetti, altre canzoni, altre ossessioni. E quel file è finito sepolto in una cartella che non aprivo più.
    Per tre anni ho creduto di aver “perso” quell’idea. Che fosse uno di quei semi caduti sulla pietra, senza terra dove attecchire. Ma mi sbagliavo.

    Il Tempo Nascosto

    Non so dove sia stata quell’idea per tre anni. Non credo di averci pensato consciamente nemmeno una volta. Eppure quando l’ho risentita, era già cresciuta. Non dovevo inventare niente, solo ascoltare quello che era diventata da sola, in qualche angolo nascosto del cervello dove le cose continuano a vivere anche quando non le guardi.
    È una sensazione che conosco bene, ma che ogni volta mi sorprende. Quell’attimo in cui capisci che l’ispirazione non è un fulmine che o lo cogli o sparisce. È più simile a un seme. Alcuni germogliano subito, altri hanno bisogno di buio, di tempo, di dimenticanza.
    Di tre anni, a quanto pare.

    Quello Che Resta

    Questa storia mi ha ricordato una cosa che tendo a dimenticare quando mi faccio prendere dall’ansia produttiva: non tutte le idee devono fiorire subito. Alcune hanno bisogno di stare nell’ombra. Di essere dimenticate. Di aspettare che tu diventi la persona in grado di realizzarle.
    L’ispirazione non si perde. Si nasconde, si trasforma, aspetta. E quando torna, lo fa con una chiarezza che non aveva tre anni prima.
    Ho ricreato il video partendo proprio da quel primo momento. Quaranta secondi che raccontano tre anni in due atti. Ma questa storia — quella vera, quella delle idee che crescono nel buio — quella sta qui.
    Dove le cose hanno il tempo di aspettare.

    P.S. — Il brano è synth-pop, ma chissenefrega. Alcune vibrazioni non hanno genere, hanno solo bisogno del momento giusto per diventare suono. 🎹✨

  • 5 Secondi di Follia: Quando l’Intelligenza Artificiale Salva un Idiota

    5 Secondi di Follia: Quando l’Intelligenza Artificiale Salva un Idiota

    Guidatore arrabbiato al volante - rabbia stradale cartoon
    Ricostruzione artistica abbastanza fedele dell’automobilista medio italiano alle 7:30 del mattino. (Credits: Disney, obviously)

    Il clacson mi prende come un pugno nello stomaco. Sono a metà dell’inserimento, tutto calcolato: velocità, spazio, tempistiche. Quindici metri di abbrivio, freccia sinistra lampeggiante, nessun disturbo al traffico. Eppure qualcuno sta suonando come se stessi commettendo un crimine contro l’umanità.

    Torniamo indietro di venti secondi. Uscita tangenziale nord direzione Limena, poco prima dell’autostrada. Orario anticipato rispetto al solito – il traffico scorre fluido come raramente capita. Scendo dalla rampa, freccia a sinistra, una macchina mi passa. Guardo lo specchietto: la successiva è ancora distante, stessa velocità della precedente.

    Accelero. Prendo la velocità del flusso, inizio a spostarmi verso sinistra. Nessuna manovra azzardata, nessun azzardo da guidatore della domenica. Solo fisica applicata e buon senso al volante.

    Poi arriva il clacson.

    L’auto che mi seguiva dalla tangenziale non sta più mantenendo la velocità. Sta accelerando. A tavoletta. Il clacson continua imperterrito, si aggiungono i fari abbaglianti in modalità strobo. Mi sposto sulla destra, rallento – più che altro per capire cosa diavolo stia succedendo.

    Mi sorpassa a velocità folle. Giro la testa. Il tizio mi sta urlando contro. Faccia rossa, gesti rabbiosi, espressione da guerriero della strada. Un flash, un lampo, un attimo.

    Con la coda dell’occhio – mentre sono ancora girato con l’espressione probabilmente ebete di chi assiste all’assurdo – vedo un bagliore rosso.

    Stop. La macchina davanti sta frenando.

    Nella mia mente vedo già lo schianto. Il suono della lamiera, il vetro, l’airbag che esplode. Il povero malcapitato che si ritroverà questo pazzo dentro l’abitacolo.

    Ma le macchine moderne sono più intelligenti di noi. Qualche sensore governato da un’intelligenza artificiale ad auto-apprendimento capisce che il suo idiota proprietario sta per fare “boom”.

    Frenata d’emergenza. Così violenta che vedo l’incauto automobilastro sbalzarsi in avanti, trattenuto dalla cintura. (Peccato, penso. Una bella frattura del setto nasale sulla corona del volante forse gli sarebbe servita).

    Ma la fisica ha le sue regole. Per quanto potenti fossero i freni di quel SUV nero con l’elica davanti, l’inerzia esige il suo tributo. Un “tunk” secco di plastiche che si toccano. Stop di entrambe le auto. Io sfilo sulla sinistra, ancora nella corsia di immissione, testimone involontario.

    Cinque secondi. Non è durato più di cinque. Tanto basta a un turbodiesel sotto un piede collegato a un cervello privo di giudizio per guadagnare qualche decina di chilometri all’ora e provocare un tamponamento evitabile.

    Tanto basta per farmi dubitare, ancora una volta, del genere umano.

    Mi chiedo: quanto ci vorrà prima che inventiamo sensori di giudizio da impiantare nel cervello? Perché evidentemente i sensori dell’auto funzionano meglio del cervello del guidatore. L’algoritmo batte l’istinto. Il silicio salva la carne.

    E io, che passo il tempo a diffidare degli algoritmi e a cercare l’autenticità umana, mi ritrovo a fare il tifo per una macchina che frena al posto del suo padrone.

    https://ilrickyverso.it

  • Ho sfidato 10 IA a mettermi in galera. Risultato? Hanno arrestato qualcun altro (o hanno imparato l’alieno)

    Ritratto mugshot di Ricky Guariento generato da IA SeeDream 4 con cartello Violazione Standard di Mediocrità per test modelli IA editing immagini

    Ovvero: come ho scoperto che 10 intelligenze artificiali su 10 hanno problemi seri con l’italiano e il mio viso

    A volte le cose nascono per caso. Le ispirazioni arrivano all’improvviso e non puoi fare altro che seguirle. E io, genio de noaltri, ho pensato: “Ehi! Trasformiamoci in un carcerato della mediocrità usando l’IA!”. Spoiler: la maggior parte di queste presunte “intelligenze” artificiali si sono rivelate più artificiali che intelligenti.

    Dal Crimine della Mediocrità al Disastro del Riconoscimento Facciale

    Stavo scrivendo un articolo sulla mediocrità online. Poi mi è venuta l’idea folle: creare un mugshot di me stesso come “criminale della creatività”, accusato di aver violato gli standard di mediocrità. Ho preso una mia foto (bruttissima tralatro), ho scritto un prompt dettagliatissimo, e l’ho dato in pasto a 9 diversi modelli AI usando lmarena.ai. Il risultato? Un festival dell’errore che merita un’analisi spietata

    La Carneficina: Analisi Brutale Modello per Modello

    Flux-1 Kontext Dev – BOCCIATO​

    Ritratto mugshot di Ricky Guariento generato da IA Flux-1 Kontext Dev con cartello Violazione Standard di Mediocrità per test modelli IA editing immagini

    Il crimine: Ha appeso il cartello AL MURO invece che darlo in mano. MA CHE SENSO HA?! È un mugshot, non una mostra d’arte contemporanea! Oltre a questo, la somiglianza c’è ma l’interpretazione del prompt è da scuola elementare.

    Flux-1 Kontext Pro – DISASTRO TOTALE​

    Ritratto mugshot di Ricky Guariento generato da IA FLUX-1 Kontext Pro con cartello Violazione Standard di Mediocrità per test modelli IA editing immagini

    Il crimine: Ha scritto “VNOULAZIONE MIOLLISOINIA ‘DL FAIE” e altre cazzate incomprensibili. Caro Flux Pro (che tra l’altro è la versione A PAGAMENTO), se non sai scrivere in italiano, almeno dillo. Costa pure di più e non sa fare lo spelling. Roba da denuncia al Codacons.

    Flux-2 Pro – CHI È QUESTO SCONOSCIUTO?​

    Ritratto mugshot di Ricky Guariento generato da IA FLUX-2 Pro con cartello Violazione Standard di Mediocrità per test modelli IA editing immagini

    Il crimine: Ha trasformato COMPLETAMENTE il mio viso. Potrebbe essere chiunque. Potrebbe essere mio cugino, il panettiere sotto casa, Brad Pitt invecchiato male. Ma non sono io. Zero somiglianza con l’immagine originale. Fail totale.​

    Flux-2 Flex – REALISMO SOTTOZERO​

    Ritratto mugshot di Ricky Guariento generato da IA FLUX-2 Flex con cartello Violazione Standard di Mediocrità per test modelli IA editing immagini

    Il crimine: Sembra tutto meno che realistica. L’immagine ha quell’effetto plastificato stile action figure degli anni ’90. Se l’obiettivo era “hyper-realistic”, qualcuno dovrebbe spiegare a Flux cosa significa “realistic”.​

    Gemini 2.5 Flash (Nano Banana) – QUASI, MA…​

    Ritratto mugshot di Ricky Guariento generato da IA Gemini 2.5 Flash (Nano Banana) con cartello Violazione Standard di Mediocrità per test modelli IA editing immagini

    Il crimine: Ha scritto “VIOLATIONE” invece di “VIOLAZIONE”. Caro Google, siamo nel 2025, l’italiano esiste da un po’ di secoli. Un errore ortografico su una parola così importante rovina tutto. Peccato, perché la somiglianza e l’atmosfera erano buone.

    GPT-Image-1 (OpenAI) – MA CHI È ‘STO TIPO?​

    Ritratto mugshot di Ricky Guariento generato da IA GPT Image 1 con cartello Violazione Standard di Mediocrità per test modelli IA editing immagini

    Il crimine: Ha travisato completamente l’immagine. Non è il mio volto. Punto. ChatGPT/OpenAI ha creato un’immagine bellissima, cinematografica, da Oscar… ma di un’altra persona. È come ordinare una pizza margherita e ricevere un sushi.

    E I Vincitori Sono…

    Nano Banana Pro (Gemini 3 Pro) – IL CAMPIONE​

    Ritratto mugshot di Ricky Guariento generato da IA Nano Banana Pro (Gemini 3.0 Image Pro) con cartello Violazione Standard di Mediocrità per test modelli IA editing immagini

    Finalmente! Mantiene la somiglianza, scrive correttamente “VIOLAZIONE DEGLI STANDARD DI MEDIOCRITÀ”, gestione luci e ombre perfetta, texture credibile. Costa qualcosa in più ma FUNZIONA. È come confrontare un chirurgo e un macellaio: entrambi tagliano, ma solo uno sa dove tagliare.

    Qwen-Image-Edit (Alibaba) – IL VERO VINCITORE NASCOSTO

    Ritratto mugshot di Ricky Guariento generato da IA Qwen 2.5 Image Edit con cartello Violazione Standard di Mediocrità per test modelli IA editing immagini

    Qwen-Image-Edit, il modello di Alibaba da 20 miliardi di parametri, ha fatto quello che gli altri hanno solo sognato. È costruito su architettura dual-path: usa il Qwen 2.5-VL encoder per la comprensione semantica e un VAE (Variational Autoencoder) per la fedeltà dell’aspetto. Questa divisione gli permette di fare sia modifiche semantiche ampie che editing preciso pixel-per-pixel.​ Supporta editing semantico (rotazioni oggetti, cambio stile) E appearance editing (modifiche a livello di pixel con integrazione perfetta di luci e ombre). Ha capacità di text rendering bilingue (inglese E cinese) ed è rilasciato con licenza Apache 2.0 – completamente open source e commercial-friendly, più permissiva di Flux.

    Reve-v1 – LA SORPRESA CINESE​

    Ritratto mugshot di Ricky Guariento generato da IA Reve V1 con cartello Violazione Standard di Mediocrità per test modelli IA editing immagini

    Il modello cinese mantiene buona coerenza con il mio volto originale, scrittura quasi corretta, atmosfera credibile. Non sarà perfetto ma ha fatto il compito correttamente. Perchè sul podio? Costa un decimo della concorrenza… Ranking #5 su LMArena per l’editing e si vede il perché.

    SeeDream-4 High Res – ALTRO COLPO CINESE​

    Ritratto mugshot di Ricky Guariento generato da IA SeeDream 4 con cartello Violazione Standard di Mediocrità per test modelli IA editing immagini

    Altro modello cinese che tiene botta. Risoluzione quadrata, somiglianza convincente, testo leggibile. Costo ridotto rispetto ai blasoni occidentali e risultato superiore alla maggior parte dei competitor. I draghi stanno divorando il mercato.

    Il Prompt Perfetto Sprecato

    Immagine di partenza per la modifica con IA

    Per chi volesse capire dove hanno fallito, ecco l’immagine di partenza e il prompt DETTAGLIATISSIMO che ho usato: specifiche fotografiche (Nikon D5300, 50mm f/1.2L, ISO 400), descrizione dell’ambientazione, del soggetto, dell’illuminazione, del testo da scrivere:


    “A hyper-realistic, cinematic mug shot portrait of a man (Critical Identity Lock: attached image) standing against a gritty, stylised police booking wall. The background is a textured concrete wall with faint scuff marks, smudged fingerprints, height lines (imperial measurements), and faded graffiti layered over institutional grey. The subject is framed dead centre, holding a black signboard that reads in bold white letters:

    ‘VIOLAZIONE DEGLI STANDARD DI MEDIOCRITÀ’

    He wears a modern black-and-white prison-style outfit: slim-fit striped top or monochrome jumpsuit, edgy and fashion-forward rather than costume-like. The neckline and sleeves have subtle fraying. Clothes are dirty and consumed. Accessories like silver hoops or a worn leather wrist cuff give it a rebellious aesthetic. His expression is confident and unbothered, with a slight smirk — bold, clever, and unashamed. He is bald his head is perfectly shaved. The lighting is stark and moody: single light source from above casting soft shadows under her jaw and behind her, creating depth and mood.

    Camera specs for realism and tension:
    • Nikon D5300, 50mm f/1.2L lens
    • ISO 400, f/2.0 for soft background blur and crisp facial detail
    • Studio-style flash with slight overhead diffusion
    • Sharpened textures on skin, hair, concrete, and fabric
    • Colour-graded for cinematic realism, subtle desaturation for gritty tone

    Tutto chiaro, preciso, impossibile da fraintendere.

    E invece…

    Riflessioni di un Criminale Deluso

    La verità è questa: la maggioranza dei modelli AI ha fallito clamorosamente. Hanno fallito nella somiglianza facciale, nell’interpretazione del prompt, nella scrittura del testo italiano. Alcuni hanno sbagliato TUTTO.​

    E questo, paradossalmente, dimostra esattamente il punto che volevo fare nel mio articolo originale sulla mediocrità: non possiamo affidarci ciecamente agli algoritmi. Non basta usare l’IA più famosa o più costosa. Serve spirito critico, serve testare, serve VEDERE con i propri occhi.

    I modelli cinesi meno conosciuti (Qwen 2.5, Reve-v1, SeeDream-4) hanno fatto meglio di Flux Pro e GPT-Image. Google Gemini 2.5 ha quasi centrato il bersaglio ma ha cannato l’ortografia. Solo la versione Pro di Nano Banana ha dimostrato di valere l’investimento e di essere quello qualitativamente migliore.

    La Vera Morale della Storia

    Il miglior modello per questo task non è stato né Google Premium né OpenAI. È stato Qwen-Image-Edit di Alibaba: open source, licenza commerciale permissiva, e risultati superiori.

    Mentre Flux Pro costa molto e scrive “miollisoinia”, mentre GPT creava immagini magnifiche di sconosciuti, Qwen ha semplicemente fatto il lavoro. Perfettamente.

    La Cina non sta arrivando nel mondo dell’IA. È già qui. E sta vincendo.

    VIOLAZIONE DEGLI STANDARD DI MEDIOCRITÀ: COLPEVOLE E ORGOGLIOSO.

    (E impressionato da Alibaba)


    P.S.: Qwen, se mi leggi, siete i migliori. Punto.

    P.P.S.: Flux, GPT… avete visto? QUESTO è come si fa.

    P.P.P.S.: Alibaba ha rilasciato questo mostro con licenza Apache 2.0. Open source. Gratis. E batte tutti i competitor a pagamento. Meditiamo.

    P.P.P.P.S.: tutto questo è stato fatto per divertimento, per strappare un sorriso e prendere in giro un po’ questa tecnologia che può veramente essere utile in tantissimi campi… non sta a me descrivere le implicazioni di tutto ciò quando va nelle mani della parte più oscura dell’animo umano… Meditiamo x 2

  • Il Re dei “Glitch”: Perché Freddie Mercury manderebbe in crash l’Algoritmo (e perché ne abbiamo un disperato bisogno)

    Il Re dei “Glitch”: Perché Freddie Mercury manderebbe in crash l’Algoritmo

    L’Anomalia nel Sistema

    Il 24 novembre il mondo si ferma, preme pausa sullo scroll infinito e ricorda. È uno di quei giorni in cui la mediocrità del feed quotidiano mi sta stretta come una camicia di due taglie in meno. E come succede sempre quando l’aria si fa viziata, torno da lui.
    Mentre scorrevo i tributi, tra una foto sgranata e quel video sacro di Wembley ‘86, una domanda cinica, quasi fastidiosa, mi si è piantata in testa come un chiodo: in questo 2025 iper-ottimizzato, Freddie ce l’avrebbe fatta?
    Oggi, dove tutto deve essere platform ready, dove i brani vengono chirurgicamente amputati per evitare lo “skip” nei primi 3 secondi e i generi sono gabbie dorate per le playlist editoriali di Spotify, c’è ancora spazio per un Parsi che mescola opera, hard rock e balletto senza chiedere permesso?

    Il Caos vs. Il Codice

    Freddie era l’antitesi dell’algoritmo. L’algoritmo ama la prevedibilità, la ripetizione, la “comfort zone”. Freddie amava il baratro.
    Prendete A Night at the Opera. Era un eccesso continuo, un dito medio alzato in faccia ai limiti di budget e di genere. Provate a immaginare di proporre oggi Bohemian Rhapsody a un discografico ossessionato da TikTok:
    «Senti caro, bella è bella. Ma l’intro è lenta, annoia. Il ritornello arriva dopo 3 minuti? Follia. Tagliamola a 15 secondi, mettiamo il drop subito, o non diventerà mai virale nei Reel». Ma almeno una volta la si poteva fare in barba ad un “umano”… chiedete a Ray Foster!
    L’algoritmo cerca il finish rate (la percentuale di chi finisce il brano); Freddie cercava l’estasi, il brivido lungo la schiena. Sono due sport diversi giocati su pianeti opposti.

    Incubo per i Metadati: L’Impossibilità di Etichettare un Dio

    Se provaste a “taggare” la discografia dei Queen per addestrare una AI musicale, probabilmente mandereste in kernel panic il server. Non era solo rock. Era tutto, ovunque, contemporaneamente.

    • Rockabilly? Fatto, con Crazy Little Thing Called Love (scritta in una vasca da bagno in 10 minuti, alla faccia della sovra-produzione).
    • Hard Rock? Ha tirato fuori gli artigli con la potenza granitica di I Want It All e la ferocia quasi metal di The Hitman. Pezzi che urlavano “arena” e che avrebbero fatto crollare Wembley, se solo avessero avuto il tempo di portarli su un palco.
    • Disco-Funk? Fatto, con Another One Bites the Dust, costringendo a ballare anche i metallari più intransigenti grazie a quel giro di basso illegale.
    • Jazz? Assolutamente. Si è seduto al piano per sussurrare un jazz fumoso e notturno in My Melancholy Blues, o per giocare con lo stile Dixieland in Good Company.
    • Synth-Pop? Ha abbracciato i sintetizzatori da classifica con Radio Ga Ga, anticipando il futuro.
    • Vaudeville e Opera? Dal teatro anni ’20 di Seaside Rendezvous fino all’apoteosi lirica di Barcelona con la Caballé.

    Oggi un consulente marketing gli direbbe che “confonde l’audience”. Che manca di “verticalità”. Che per posizionarsi nella SERP deve scegliere una keyword e martellarla. Lui rispondeva mescolando tutto nello stesso album, a volte nella stessa maledetta canzone (vedi Innuendo: flamenco, hard rock e orchestra in 6 minuti).
    Freddie non era una keyword, era un intero dizionario.

    La Solitudine del Multiverso (e la mia confessione)


    Qui scendo dal pulpito e mi guardo allo specchio. Con l’umiltà di chi osserva l’Everest dal campo base, confesso: in quell’insofferenza alle etichette, io mi ci rivedo.
    Quante volte mi sono sentito dire: “Ricky, ma non si capisce che fai. Fotografo? Tech blogger? Scrittore?”. Oppure il classico, terribile: “Sei troppo”.
    Troppo cosa? Troppo complesso? Troppo vario? Troppo vivo per stare in un database?
    Nel laboratorio creativo del RickyVerso, combatto ogni giorno la stessa battaglia. Spaziare tra i generi — dalla fotografia alla tecnologia, dai racconti distopici alla musica progressive — oggi è visto dal marketing come una “mancanza di focus”. Il mantra è: “Trova la tua nicchia”.
    Ma se la tua nicchia fosse l’Universo intero? Se la tua curiosità si rifiutasse di abitare in un monolocale?
    Quando ti dicono “sei troppo”, in realtà ti stanno dicendo “non rientri nella mia casella Excel”. E sapete una cosa? Meno male.

    Cercare la Bellezza nel Rumore

    Forse la risposta alla mia domanda iniziale è no. Oggi Freddie farebbe una fatica immane. Probabilmente verrebbe scartato ai bootcamp di X-Factor perché “troppo teatrale” o “poco radiofonico”.
    Ma è proprio per questo che dobbiamo ricordarlo con rabbia, non solo con nostalgia. Freddie è il promemoria vivente che l’umanità è disordinata, incoerente e magnifica.
    L’algoritmo può prevedere cosa comprerai domani, ma non potrà mai sorprenderti come un uomo in canottiera bianca che, senza smartphone, tiene in pugno 72.000 anime con un solo vocalizzo.
    La bellezza è un atto di ribellione. Essere indefinibili è l’unica vera resistenza rimasta. Continuiamo a creare il “troppo”, anche se l’algoritmo non lo capisce.
    Anzi, soprattutto perché non lo capisce.