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  • Fisica, musica, una nipote e tanti giovani non pigri.

    Oltre 90 studenti del Liceo Marchesi sfidano i luoghi comuni sui giovani. Un concerto a Murelle che dimostra come la passione (e la musica) possa rompere ogni pregiudizio.
    I giovani musicisti del Liceo Marchesi

    Poche cose sono in grado di hackerare il nostro cervello come la musica. Di aprirlo come una scatoletta di tonno e ribaltarne il contenuto.

    Se ci pensate con freddezza scientifica, è un meccanismo assurdo. Un pezzo di legno morto e metallo freddo vibra perché sfiorato da un crine di cavallo (o percosso, o pizzicato). Queste vibrazioni spostano l’aria, che prende a schiaffi delicati gli ossicini dentro le nostre orecchie. Il cervello decodifica tutto questo e… bam.
    Improvvisamente piangi. O ridi. O ti senti invincibile.
    Stai ricevendo un file zip emotivo compresso secoli fa da un tizio con la parrucca dall’altra parte del mondo, e il tuo sistema operativo lo sta scompattando in tempo reale, colpendoti dritto allo stomaco.

    Un meccanismo di una complessità immane, eppure capace di annullare lo spazio e il tempo in un istante.

    Che dannata meraviglia.
    Ieri questo miracolo della fisica si è ripetuto. Sono stato a Murelle, nell’Alta Padovana, nella Chiesa di Santa Maria Assunta. Un gioiellino barocco che profuma di storia, con i suoi stucchi e quel pavimento in marmo che ha visto passare generazioni.

    Ma non ero lì per l’architettura. Ero lì per mia nipote Emma e per il Concerto di Natale del Liceo Musicale Marchesi.
    Davanti a me non c’erano “ragazzini”. C’erano più di 90 professionisti in erba, dai 14 ai 19 anni. Novanta anime armate di archi, fiati, percussioni, arpe e pianoforte.
    Quando hanno attaccato, la chiesa non era più una chiesa. Era un oceano.
    Un coro che sapeva essere brezza leggera un attimo prima, per poi diventare tempesta e spettinarti l’anima quello dopo.

    Ho guardato Emma. Ho guardato i suoi compagni. La concentrazione, il sudore, gli sguardi d’intesa. Lì in mezzo, tra una battuta e l’altra, stavano costruendo mondi.
    E qui mi sale il cinismo, ma verso il bersaglio giusto.
    Quante volte sentiamo dire che i giovani d’oggi non hanno voglia di fare niente? Che sono pigri, senza nerbo, persi dietro a uno schermo?
    Bullshit. Tutte cazzate.

    La mia esperienza — quella di ieri sera, ma anche quella col piccolo coro che dirigo — mi dice un’altra verità. Una verità scomoda per gli adulti mediocri: i ragazzi non sono spenti. Siamo noi che spesso non sappiamo accenderli.
    Se questi “giovani sdraiati” hanno la fortuna di incrociare adulti capaci di trasmettere VERA PASSIONE, di trattarli con rispetto e di sfidarli con la bellezza, loro non solo si alzano. Loro spaccano il mondo.
    I ragazzi del Marchesi ieri non stavano “facendo un compitino”. Stavano rompendo le convenzioni.

    Un grazie gigante va a quei professori che non timbrano il cartellino, ma vivono la loro materia. Quelli che, come ieri, dirigono non con la bacchetta, ma con il cuore in mano.
    La musica è fisica, sì. Ma quello che ho visto ieri è pura alchimia umana. E finché ci sarà, il futuro è in buone mani.

  • Venti ore di sonno arretrato, una bronchite e un cuore pieno: il conto della Fiera del Folpo.

    Sei giorni alle Griglie della Bettola Ranch di Noventa Padovana. Solo oggi, dopo 24 ore di blackout totale, riesco a mettere in fila i pensieri su cosa significa davvero condividere qualcosa di vero

    La Fiera del Folpohttps://fieradelfolpo.it) è finita l’altro ieri. Ieri non esistevo: troppo sonno arretrato, troppa bronchite, troppo lavoro “ufficiale” da recuperare. Solo stamattina, con un barlume di lucidità mentale che si fa strada in una testa piena di raffreddore, riesco a scrivere. Riesco a dare un senso a questi sei giorni che mi hanno lasciato in eredità almeno venti ore di sonno da recuperare, una voce praticamente inesistente e un corpo che protesta ad ogni movimento.

    Eppure eccomi qui, con il cuore enormemente pieno.

    Mettiamo le cose in chiaro: sei giorni filati alla Fiera del Folpo di Noventa Padovana, quattro dei quali dalle 8:30 del mattino fino a notte fonda, alle Griglie della Bettola Ranch. E mentre scrivo sono afono, con una tosse da fumatore pentito e occhiaie che potrebbero ospitare un piccolo accampamento.

    Ma c’è una cosa che nessun antibiotico può curare e nessun sonno arretrato può scalfire: quella sensazione di pienezza che ti ritrovi dentro quando vivi qualcosa di vero.

    Perché quei sei giorni non si misurano in ore perse o in decibel di voce scomparsi. Si misurano in altro. In quelle conversazioni riprese esattamente dove le avevi lasciate dodici mesi prima, con persone che vedi solo durante la Fiera ma con cui il filo non si spezza mai. Nessun “come stai?”, nessun riassunto delle puntate precedenti. “Allora, dicevi che…?” E sei di nuovo dentro, come se fossero passati sei minuti e non un anno intero.

    Si misurano nel trovarti in mezzo a decine di volontari che donano—uso questo verbo consapevolmente—il loro tempo, le loro energie, il loro sudore. Gratuitamente. Non per una busta paga, non per un ritorno economico personale (tutto il ricavato viene destinato alle attività parrocchiali, in particolar modo quelle dedicate ai giovani) ma per un interesse comune che ha a che fare con l’appartenenza, con il costruire qualcosa insieme, con il sentirsi parte di un organismo vivo che respira tradizione, braci e comunità, quella della Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo.

    È quella sensazione straniante e bellissima di lavorare fianco a fianco con persone che non chiedono nulla in cambio. Che sono lì perché sì, perché quello che si costruisce insieme vale più di qualsiasi compenso. Perché l’interesse comune non sta scritto su un contratto, ma negli sguardi, nelle pacche sulle spalle, nel caffè condiviso a mezzanotte quando sei in piedi da sedici ore.

    Ma c’è una cosa che vale più di tutto il resto, più della stanchezza e della bronchite messe insieme: i giovani.

    In un’epoca in cui il ritornello dominante è sempre lo stesso—”i giovani non hanno voglia di fare nulla”, “sono pigri”, “vivono attaccati al telefono”—noi siamo la dimostrazione vivente che è tutto falso. O meglio: che dipende da cosa gli offri.

    Perché se trasmetti passione vera, se mostri che quello che fai ha senso e valore, se non fingi entusiasmo ma lo vivi davvero, allora li coinvolgi. Eccome se li coinvolgi. Li vedi accendersi. Li vedi dare il meglio di sé. Li vedi diventare parte di qualcosa che dura.

    Anni di sudore, di lavoro duro, di difficoltà superate insieme hanno creato un gruppo coeso in cui anche i più giovani hanno trovato il loro posto. Non perché “bisogna coinvolgere le nuove generazioni” (frase vuota da comizio), ma perché hanno visto che qui si fa sul serio. Che si ride, si suda, si lavora, si condivide. Che qui la bellezza non è uno slogan: è una pratica quotidiana. I giovani non sono solo il nostro futuro (altra frase che non mi piace molto), ma sono soprattutto il nostro presente!

    E questa, forse, è la soddisfazione più grande di tutte. Quella che vale venti ore di sonno e una voce perduta. Quella che nessun algoritmo può misurare e nessun social può contenere.

    Perché alla fine la bellezza—quella vera, quella che cerco ovunque e che cerco di creare quando non la trovo—ha sempre un prezzo. Ma quando è condivisa, quel prezzo diventa leggero come l’aria. Diventa invisibile. Diventa gioia pura.

    Allora sì, ho perso la voce. Ho perso il sonno. Ho perso la salute per qualche giorno.

    Ma ho trovato—ancora una volta—la bellezza condivisa. Quella sudata, quella che non sta nei filtri o negli algoritmi. Quella che si crea da sola, gratuitamente, quando a notte fonda si cena tutti assieme con i piedi che fanno male. Stanchi, sudati, puzzolenti, bruciacchiati… ma sorridenti e felici.

    Ci vediamo l’anno prossimo, Fiera del Folpo. Porta pure altre venti ore di debito di sonno.

    Ne vale sempre la pena.