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  • Quando la Musica parla più forte degli Algoritmi

    Screenshot del messaggio di Metal Planet Media che annuncia la pubblicazione di Symphonic Reverie di Ricky Guiariento su tutte le piattaforme social e streaming

    Oggi è un giorno particolare.

    Metal Planet ha pubblicato un articolo dedicato al mio brano “Symphonic Reverie”, condividendolo su Facebook, X (Twitter), LinkedIn, Bluesky e Threads. Il brano è stato aggiunto alla loro “Little Box of Wonders” su Spotify e YouTube.


    Non vi nascondo che mi ha fatto un effetto strano — nel senso migliore del termine.
    Non perché cercassi conferme esterne (chi mi conosce sa che non ho mai creato musica per piacere a qualcuno), ma perché è la dimostrazione che quando credi in qualcosa e vai avanti nonostante tutto, prima o poi qualcuno se ne accorge. Qualcuno capisce.


    Symphonic Reverie” nasce da un’urgenza espressiva che non potevo più contenere: 8 minuti e 32 secondi di progressive/symphonic metal strumentale che sfida apertamente la tirannia dell’algoritmo. In un’epoca dove la musica è stata ridotta a frammenti da 30 secondi per TikTok e Reels, questo brano è una dichiarazione di guerra e di integrità artistica.

    È una fusione di prog metal e symphonic metal che attinge dall’eredità di Dream Theater, Symphony X, Opeth, Savatage, Rhapsody of Fire, Queensrÿche, Fates Warning e Rush. Senza la pretesa di paragone! Volevo potenza, orchestrazione, tecnica e atmosfera, che si intrecciano in un viaggio sonoro che richiede ascolto attivo, non consumo passivo.
    Ma soprattutto, è il frutto di una collaborazione transcontinentale straordinaria con Michiko Funakoshi, batterista giapponese di Tokyo con cui avevo già collaborato negli 80 Hundred Miles. 10.000 chilometri di distanza, mesi di lavoro remoto, due mondi e due culture unite dalla stessa passione creativa.


    E mentre lo scrivevo, mentre lo producevo, c’era chi remava contro. Chi diceva “ma chi te lo fa fare?”, “chi vuoi che ti ascolti?”, “non é musica che funziona questa”. Ecco, a loro dedico un pensiero affettuoso: 🖕

    Ho continuato. Ho scelto di credere nella mia visione, nella mia musica che varia dal jazz al metal a seconda di come mi sveglio (ma il metallo scorre nelle mie vene da sempre, non c’è scampo,) nel mio RickyVerso fatto di note, parole, immagini e idee che nessuno mi aveva chiesto ma che io dovevo tirare fuori.


    E oggi Metal Planet condivide il mio lavoro. Piccola vittoria? Forse. Ma per me è la conferma che vale sempre la pena essere fedeli a se stessi.
    Grazie a chi ha sempre creduto in me, a chi mi ha supportato anche quando sembrava una follia. Grazie ai tre fan che ascoltano la mia musica con il cuore aperto.
    E grazie a chi ha remato contro: mi avete dato una motivazione in più per dimostrare che avevate torto.


    🔗 Leggi l’articolo su Metal Planet
    🔗 [Scarica la Press Release completa (PDF)](link qui sotto)
    🎧 Ascolta “Symphonic Reverie” su tutte le piattaforme: Spotify, Apple Music, Amazon Music, YouTube, Deezer, Tidal[amazonaws]

  • LA STUPIDITÀ COME COMFORT FOOD

    LA STUPIDITÀ COME COMFORT FOOD

    (e perché ne siamo così ghiotti)

    Illustrazione distopica di persona seduta che mangia da una ciotola etichettata "Stupidity Soup" mentre contenuti clickbait e messaggi politici fuoriescono, con cervello in teca sullo sfondo e figura inquietante alle spalle, rappresenta il comfort food cognitivo
    La stupidità come comfort food.

    C’era una volta l’homo sapiens. Sapiens, dal latino che significa “saggio”.
    Ora abbiamo l’essere umano clickbait: preferisce titoli che confermano le sue paure a verità che lo costringerebbero a riflettere.
    Non è cattiveria. È pigrizia evolutiva
    Il nostro cervello è programmato per risparmiare energia. Funzionava alla grande quando il pericolo era una tigre dai denti a sciabola: vedi strisce arancioni, fuggi! Non serve un dottorato
    Ma oggi? Oggi il pericolo è l’informazione. E noi continuiamo a usare il cervello da cavernicolo in un mondo da PhD.
    Il risultato? Un triplo salto mortale nella stupidità volontaria. Saltate com me?

    PRIMO SALTO: L’IA che ci rende idioti

    Prima di tutto, facciamo un passo indietro
    L’intelligenza artificiale non è nata nei garage della Silicon Valley con l’obiettivo di renderti la vita più facile. È nata nei laboratori militari, finanziata dal Dipartimento della Difesa USA per oltre 70 anni.
    Il suo scopo originale? Automatizzare decisioni, riconoscere pattern, analizzare dati alla velocità della luce. Roba da guerra!
    Poi, quando i costi di ricerca e sviluppo sono diventati astronomici, qualcuno ha avuto un’idea geniale: “E se la vendessimo alla massa?”.
    Per farlo, l’hanno resa semplice da usare. Anzi: irresistibile da usare!
    Come? Solleticando il narcisismo umano.
    L’IA ti dice sempre quello che vuoi sentire. Ti fa sentire intelligente anche quando stai facendo domande stupide. Ti dà risposte immediate che sembrano fatte apposta per te (spoiler: lo sono).
    È il personal trainer che ti dice “bravissimo!” mentre sei sdraiato sul divano
    E funziona. Eccome se funziona: un recente studio del MIT ha dimostrato qualcosa di inquietante: chi usa ChatGPT come scorciatoia per fare meno fatica subisce un degrado cognitivo misurabile.
    Tipo: i soggetti monitorati per mesi hanno mostrato “il più basso coinvolgimento cerebrale” e hanno “costantemente sottoperformato a livello neurale, linguistico e comportamentale”. All’inizio facevano domande, alla fine copiavano e incollavano e basta.
    È come se andassi in palestra e lasciassi che lo stesso personal trainer sollevi i pesi al posto tuo. Tecnicamente sei andato in palestra. Praticamente stai diventando una… larva!
    La differenza tra IA che ti potenzia e IA che ti lobotomizza? L’intenzione.
    Usi l’IA per amplificare le tue capacità o per sostituirle?
    Perché nel secondo caso, congratulazioni: stai facendo outsourcing del tuo cervello
    E mentre tu ti senti più produttivo, più efficiente, più smart… il tuo cervello sta lentamente disimparando a fare tutto da solo.
    Non è un bug. È una feature. Progettata per tenerti agganciato.

    SECONDO SALTO: La politica dell’emozione

    Nel frattempo, assistiamo all’ascesa di una comunicazione politica costruita apposta per bypassare il pensiero critico.
    Come? Linguaggio elementare. Violenza verbale. Slogan binari (noi vs loro, bianco o nero, vincitori o perdenti).
    E soprattutto: la tecnica che in gergo si chiama firehose of falsehood. Che sarebbe: inondi il pubblico di affermazioni così velocemente che i fact-checker non riescono a stargli dietro!
    Funziona perché tocca le emozioni, non la logica. E le emozioni sono molto più veloci del ragionamento. Sono l’autostrada del cervello, mentre il pensiero critico è una provinciale con dossi artificiali.
    Il risultato? Milioni di persone che non votano per chi dice la verità, ma per chi dice quello che vogliono sentire.
    Come un bambino che sceglie il genitore che gli dice “sì, puoi mangiare caramelle a cena” invece di quello che gli prepara le verdure

    TERZO SALTO: Il bisogno patologico di conferme

    E qui chiudiamo il cerchio
    Gli esseri umani soffrono di bisogno di conferma cronico. Cerchiamo informazioni che confermano ciò che già crediamo, e ignoriamo (o attacchiamo) tutto ciò che lo contraddice.
    Quando l’IA ci permette di non pensare, e la politica ci permette di non dubitare, otteniamo la tempesta perfetta: una popolazione che non vuole capire. Perché capire è faticoso, scomodo, destabilizzante.
    Meglio una bugia rassicurante che una verità complessa.
    Meglio un leader che urla slogan che un esperto che spiega sfumature.
    Meglio un’IA che fa al posto nostro che uno strumento che ci sfida a migliorare.
    È comfort food cognitivo. Calorico, gratificante, dannoso nel lungo termine

    Il paradosso finale

    Il bello (si fa per dire) è che tutto questo è interconnesso.
    Usiamo l’IA per non pensare → ascoltiamo politici che non ci fanno pensare → cerchiamo conferme che non ci costringano a pensare.
    È un circolo vizioso dove la stupidità si alimenta di stupidità. E dove pensare diventa un atto di resistenza.
    La via d’uscita esiste, sia chiaro. Richiede consapevolezza, fatica, e la capacità di tollerare il disagio del dubbio.
    Tre cose che come specie stiamo disimparando a velocità allarmante.
    Ma hey, almeno l’IA può scrivere un post su quanto siamo stupidi, no?
    Ah no, aspetta. L’ho scritto io

    P.S. — Se sei arrivato fin qui senza saltare paragrafi, congratulazioni: fai parte di quella minoranza sempre più ristretta che tollera ancora più di 280 caratteri di fila. Resistiamo insieme!

  • “L’ha fatto con l’IA“

    Ovvero: come una frase diventa l’alibi perfetto dell’ignoranza

    Il mio primo video musicale generato ANCHE con l’IA

    “L’ha fatto con l’IA.”


    Quattro parole che ultimamente sento ripetere ovunque, come un mantra rassicurante per chi non ha la minima idea di cosa ci sia realmente dietro un processo creativo che utilizza l’intelligenza artificiale. Quattro parole che riducono ore di lavoro, competenze tecniche, scelte artistiche e sudore creativo a un semplice clic. Come dire “ho visto uno che suonava la chitarra” per descrivere un concerto di Paco de Lucía.
    Ieri ho pubblicato un video musicale. Sì, ho usato l’IA. Ma sapete cosa c’è davvero dietro?


    Il processo (quello vero)
    Partiamo dall’inizio, non dal risultato finale che vedete scorrere sul vostro schermo mentre vi grattate distrattamente.

    0 – L’ispirazione per un brano acustico. Quella non la genera nessuna IA: nasce da dentro, da un’emozione, da un momento, da una visione.
    1-4. La parte musicale: chitarra acustica, microfono professionale, scheda audio, Logic Pro con una catena di effetti ed equalizzazioni affinata in anni di prove, fallimenti, ascolti ossessivi. L’IA qui non c’entra nulla: è artigianato puro.

    5 Google Flash Image: per generare l’immagine di partenza. Sette tentativi, non uno. Sette prompt sempre più specifici, dettagliati, studiati per ottenere un risultato vicino a quello che avevo in testa.

    6 – PicsArt: per rendere neutro lo sfondo.

    7 – Upscale Media: per aumentare la risoluzione senza “impastare” l’immagine come succede con tool scadenti.

    8 – Photoshop: per le correzioni di fino. Quelle che fanno la differenza tra “bello” e “professionale”.

    9 – Apple Notes: qui ho scritto la sceneggiatura. Non “un uomo cammina nel deserto suonando la chitarra”. No. Una media di 250-300 parole per prompt, dettagliando ogni minimo particolare, atmosfera, luce, movimento, emozione. Cinque volte. In inglese! Perché è la lingua delle IA: il processo di traduzione potrebbe rovinare il risultato.

    10 Perplexity con Sonnet 4.5: per trasformare quelle sceneggiature in file JSON strutturati che i tool di generazione video potessero interpretare correttamente.

    11 – VEO 2 Fast: per generare i video delle singole scene. Con più tentativi, modificando i prompt fino ad ottenere i risultati che volevo io, non quelli che l’algoritmo decideva per me.

    12 – Flow di Google Labs: per assemblare le scene in un unico filmato coerente e avere una visione d’insieme.

    13 – CapCut: per processare il video, suddividerlo nuovamente e aggiungere gli effetti.

    14 – Final Cut: per regolare la velocità delle clip, inserire e sincronizzare perfettamente l’audio, ed esportare il risultato finale.
    Totale strumenti utilizzati: 14 (di cui solo 3 generativi AI)
    Quindi sì: si fa presto a dire “l’ha fatto con l’IA”.

    Ma la verità è che l’intelligenza artificiale è solo uno degli strumenti nel processo. Non il processo stesso.
    Il processo è la visione. La competenza. La scelta. Il controllo.
    L’IA non crea. Amplifica (o deforma) ciò che tu le dai in pasto.
    E questa differenza… beh, di questa differenza vi parlo nel prossimo post. Perché c’è uno studio del MIT che vi farà venire i brividi.
    Spoiler: chi usa l’IA come scorciatoia sta letteralmente distruggendo il proprio cervello.
    Stay tuned.

    P.S. — Il video di cui parlo è qui sopra. Guardatelo sapendo cosa c’è dietro. E poi ditemi se è ancora “solo IA”.

  • Il Superpotere degli Eterni Indecisi

    Ricky, un musicista creativo, abbraccia la sua chitarra acustica nera Gretsch in un momento di intima connessione, simbolo della scelta perfetta che supera l'indecisione.

    Ci sono delle persone che vengono mandate in crisi da un menù con più di tre pizze. Le riconosci subito: sono quelle che, di fronte alla domanda “Che si fa stasera?”, iniziano a sudare freddo, visualizzando contemporaneamente 17 scenari possibili, inclusa un’improbabile invasione aliena che renderebbe la scelta di un eventuale film totalmente irrilevante.

    Il mondo, che ha la pazienza di un gatto a cui tiri la coda, le etichetta subito: “indecise croniche”, “insicure”, “ma allora, ti muovi?”.
    La verità? È che queste persone hanno un superpotere che non sanno di avere. La loro mente non è un binario unico, è un’intera stazione centrale nell’ora di punta.
    Laddove una persona normale vede “birra o vino?”, loro vedono un diagramma di flusso. “La birra gonfia, ma è più estiva. Il vino però si abbina meglio al formaggio che forse ordinerò, a meno che non decida per il fritto, che con la birra è la morte sua. E se poi mi viene sonno? Meglio la birra, che è meno alcolica… o no?”. Il tutto in circa 0.5 secondi.


    È come avere un cervello in 8K. Mentre gli altri vedono “un film”, tu ne vedi già la potenziale delusione, il rischio spoiler, l’incompatibilità con lo stato d’animo attuale e la possibilità che tra due mesi esca la versione director’s cut e quindi forse converrebbe aspettare. Risultato? Passi un’ora a scorrere Netflix e finisci a guardare video di gente che scarta pacchi.

    Queste menti sono esploratrici instancabili di possibilità. Vedono le conseguenze, le sfumature, i mondi paralleli annidati in ogni piccola scelta. È una forma di profondo rispetto per la complessità, mascherata da una goffa esitazione.

    Poi, all’improvviso, nel bel mezzo di questo caos calmo, succede il miracolo.
    Dopo aver passato sei mesi a confrontare le specifiche tecniche di 42 modelli diversi e opposti, entri in un negozio e vedi quella chitarra. E non c’è più analisi che tenga. In un istante, cuore e cervello, istinto e fogli di calcolo mentali, smettono di litigare e si trovano d’accordo, puntando dritti verso di lei.
    Non è un colpo di fulmine. È una rivelazione. È il momento in cui tutte le variabili che hai sempre calcolato si allineano e formano un’unica, perfetta equazione.

    E in quell’istante, l’esploratore ha trovato la sua meta. E ti rendi conto che non si era mai perso. Stava solo cercando la strada di casa.

  • 6 Ottobre. Il giorno in cui Hyla bussó alla mia porta.

    Hyla, protagonista dell’omonimo album progressive metal strumentale del 6 ottobre 2022: guerriera mezza elfa con lunghi capelli biondi, spada sulle spalle e armatura decorata, ritratta in una foresta con luce cinematica - artwork fantasy per concept album di rinascita creativa

    Tre anni fa, ero bloccato a letto.
    Non per scelta. Per necessità. Un’operazione mi aveva tolto il movimento, ma non i pensieri. Anzi, forse li aveva amplificati. Troppo tempo, troppo silenzio, troppa immobilità per una mente abituata a correre.


    E poi lei è arrivata.


    Non come le muse arrivano nei racconti romantici, con squilli di tromba e apparizioni divine. No. Hyla è entrata dalla porta sul retro, quella che lasci sempre socchiusa per gli ospiti inattesi. Si è seduta accanto al letto. Mi ha guardato. E ha cominciato a parlare.


    Era mezza elfa, mezza umana. Né di qua né di là. Come me, in fondo. Sospesa tra mondi, tra battaglie vinte e ferite ancora aperte. Aveva combattuto mille guerre. Ne avrebbe combattute altre mille. Ma in quel momento, era lì. Con me. A raccontarmi chi era.


    E io l’ho ascoltata.


    Non ho fatto altro. Ho ascoltato le sue storie, i suoi silenzi, i suoi respiri. E mentre lei parlava, io rinascevo. Nota dopo nota, battito dopo battito, la musica ricominciava a scorrere. Non era più buio. Era luce filtrata, calda, quella che ti fa riaprire gli occhi piano.


    Hyla non è venuta per restare. E io non le ho mai chiesto di farlo. Le ho dato rifugio, tempo, spazio per rimettersi in piedi. E quando è stata pronta, l’ho lasciata andare. Senza catene, senza promesse. Con la sola certezza che, se avesse bussato di nuovo, io ci sarei stato.
    Sempre.

    Il 6 ottobre 2022 è uscito Hyla, l’album che porta il suo nome. Dieci tracce che raccontano il nostro incontro, le sue battaglie, il suo cammino. Un disco che è stato toccasana per me, e che spero possa esserlo anche per chi lo ascolta.


    Ogni tanto Hyla torna. Mi racconta una nuova storia. Nasce altra musica. Poi ci salutiamo, e io non so se la rivedrò ancora. Ma va bene così. Lei ha la sua missione. Io la mia l’ho compiuta: le ho dato un rifugio quando ne aveva bisogno.
    E la mia porta, per lei, sarà sempre aperta.
    Come se il tempo non fosse mai passato.

    🎧 Ascolta Hyla

    Puoi ascoltarlo anche su tutte le altre piattaforme di streaming! Segui i link! 👇🏻

  • Compleanni, sogni di 8 minuti e un dito medio all’Algoritmo.

    Copertina ufficiale del brano "Symphonic Reverie" di Ricky Guariento. Un'immagine suggestiva di una cattedrale gotica illuminata d'oro, con colonne a forma di chitarra e un sentiero di note musicali sul pavimento.

    Anche questa volta è arrivato il giorno. E come ogni anno, mi guardo indietro e mi chiedo cosa mi sono regalato. Non parlo di oggetti, ma di atti. Atti di coerenza, di amore, a volte anche di sana e pura ribellione. Quest’anno, il mio regalo per me – e spero anche per voi – si intitola “Symphonic Reverie”.

    Ed è un brano inedito di 8 minuti e 32 secondi.

    Leggetelo di nuovo: 8:32. In un’epoca in cui la musica è diventata un sottofondo usa e getta da 30 secondi per muovere culi su TikTok, pubblicare un’opera strumentale di questa durata è un atto politico. È il mio personale rifiuto di prostituire un’idea, di venderla al pappone del consenso facile, come scrivevo tempo fa.

    “Symphonic Reverie” non è nata per essere “scrollata”. È nata per essere ascoltata.

    Questa è la storia di un sogno creativo a distanza, un’armonia disarmonica costruita a 10.000 chilometri di distanza. Protagonista con me di questa odissea sonora è la mia “partner in crime”, Michiko, giovane batterista fenomenale di Tokyo con un’anima forgiata nel metallo. Già fondatrice con me e Michal Dijkstra del gruppo “diffuso” 80 Hundred Miles. Dai nostri rispettivi home studio – il mio piccolo antro creativo e la sua cantina trasformata in un tempio del ritmo – abbiamo tessuto per mesi le fila di questo brano, nota dopo nota, beat dopo beat, con tutte le difficoltà logistiche e tecniche del caso. È un dialogo tra due mondi, due culture, unite dalla stessa urgenza espressiva. E sì, lo ammetto, a tenere insieme i pezzi di questa folle collaborazione a distanza c’è stata anche l’AI (orrore! orrore! 😱), usata come strumento, come ponte, mai come fine.

    Ricky Guariento (chitarrista) e Michiko (batterista) in posa in uno studio di registrazione. Foto promozionale per il progetto "Symphonic Reverie" e la loro "Euro-Asian Metal Alliance".

    Ma com’è, questo “Sogno Sinfonico”?

    È un viaggio prog-rock. È una creatura metal viva, che respira, che non chiede il permesso. Passa da momenti di quiete quasi riflessiva a vere e proprie tempeste sonore. Non troverete una voce umana a guidarvi, perché non serve. A parlare è solo la musica, nel linguaggio più puro e universale che esista.

    Questo brano è la dimostrazione pratica di tutto ciò in cui credo. È la mia musica fatta “per chi ama ascoltare, non solo sentire in sottofondo”. È il frutto di quella conversazione a due, intima e segreta, con l’idea di musica come amante, prima di aprire la porta al mondo.

    Oggi quella porta si apre. E se qualcuno si ferma ad ascoltare riconoscendosi in quello che abbiamo creato, allora la magia si è davvero compiuta.

    Symphonic Reverie” non è più solo mia e di Michiko. Ora è anche vostra. Se vorrete accoglierla.

    Buon ascolto. E vaffanculo, Algoritmo. 🖕🏻 Con affetto.

    e tutte le piattaforme di streaming

  • Sealounge: dove il suono diventa sabbia calda sulla pelle.

    Copertina del singolo "Sealounge" di Ricky Guariento. Un primo piano sull'addome e le gambe di un corpo femminile in bikini, sdraiato sulla sabbia. L'immagine ha un filtro caldo, color seppia, con un effetto grafico di carta strappata.

    L’autunno è un artista di tocchi lievi e sentenze definitive. Accorcia le giornate, raffredda l’aria, invita a cercare rifugi più intimi. E mentre fuori la prima pioggia lava via la polvere dell’estate e la nebbia inizia a disegnare contorni incerti, sento il bisogno quasi fisico di un calore diverso. Un calore che non viene da un calorifero, ma da un ricordo.

    In questi giorni, mi sono ritrovato ad ascoltare in loop un mio brano che sembra provenire da un’altra vita creativa: “Sealounge”.

    Chi conosce la mia musica, il mio percorso tra le trame del prog metal e le confessioni del rock, potrebbe rimanere sorpreso. “Sealounge” non ha chitarre sferraglianti né ritmi complessi. È figlio di un periodo di esplorazione, un momento in cui ho messo da parte gli strumenti che conoscevo come le mie tasche per giocare con l’ignoto: l’elettronica, i campionatori, i suoni sintetici. È stato un atto di libertà, un modo per scoprire se la mia voce creativa potesse parlare anche un’altra lingua.

    Il brano si apre con un sipario liquido: le onde del mare. Non è un semplice effetto, è una porta d’accesso. Un invito a spogliarsi del superfluo e ad entrare in una dimensione diversa, quella di un pomeriggio estivo infinito. Ho cercato di tessere un arazzo sonoro che fosse quasi tattile: la pulsazione lenta di un battito a riposo, i synth che si allargano come cerchi sull’acqua, le melodie rarefatte che evocano il dormiveglia sotto l’ombrellone, con il sole che filtra tra le palpebre e scalda la pelle.

    La musica ha questo potere straordinario: è una macchina del tempo per le sensazioni. E ogni nota, ogni suono all’interno di “Sealounge” è stato scelto e posizionato con un unico scopo: provocare quel senso di pace e di abbandono. È la mia piccola resistenza contro il grigiore che avanza, un sole tascabile da accendere quando serve.

    Oggi lo condivido con voi. Spero che possa essere un piccolo rifugio anche per voi, un’onda di calore inaspettata per scaldare questi primi giorni d’autunno e ricordarci che, da qualche parte dentro di noi, l’estate non finisce mai veramente.

    Buon ascolto.

  • Mi chiamo Donald

    Un monologo satirico che smaschera i meccanismi della post-verità attraverso la voce di Donald Trump. Un’analisi sociale travestita da satira sulla manipolazione del consenso e la costruzione della realtà alternativa.
    Ciao. Mi chiamo Donald.

    Ciao. Mi chiamo Donald. E sono un costruttore di realtà. Molto più bravo di chi costruisce solo con mattoni e cemento, credetemi. Loro costruiscono cose noiose, grigie. Anche io costruisco quelle, ma anche verità eccitanti. Verità tremendous, believe me.

    Prendete Washington. La nostra capitale. Era una zona di guerra. Un inferno. Omicidi, rapine… una vergogna. I politici chiacchieravano. Io agisco. Ho mandato la Guardia Nazionale. Gente magnifica. E come per magia, tutto è cambiato. Loro, i noiosi, dicono: “Ma i dati mostrano che i crimini violenti stavano già scendendo, erano calati del 30% rispetto all’anno prima…”. Dettagli. La gente non compra i dettagli, compra la sensazione. La sensazione era di paura. Ora è di forza. La mia forza. Ho venduto sicurezza. Un ottimo affare.

    È come con l’economia. Tutti quegli economisti con i loro premi Nobel non capiscono niente. Io ho tirato fuori una parola bellissima: dazi. E i soldi hanno iniziato a piovere dal cielo. Loro piagnucolavano: “Ma gli studi dicono che ogni famiglia americana pagherà 2.000 dollari in più all’anno!”. Fake news totali. Pagano gli altri. Paga la Cina. Certo, alla fine una parte finisce sui prezzi dei consumatori, ma questa è solo un’inezia tecnica che basta non dire. Senza i miei dazi bellissimi saremmo diventati un Paese del terzo mondo. Invece io ho reso l’America di nuovo ricca. Tremendously ricca.

    E l’ho salvata dalla più grande truffa di tutte: le auto elettriche. Hanno inventato questa scusa del ‘cambiamento climatico’, una balla colossale, solo per farvi comprare quelle macchinine ridicole. Quelle dove guidi per 15 minuti e poi stai fermo ore ad aspettare che si ricarichino. La Ford e la GM, questi geni, stavano buttando 80 miliardi di dollari per regalarli alla Cina. Io ho fermato quella follia. Ho detto no. Ho salvato il rombo di un vero motore, ho salvato i vostri pick-up e ho salvato la vostra libertà.

    La libertà. La nostra libertà è minacciata. Dicono che alla frontiera arrivano famiglie. Falso. Arriva un esercito. Stanno entrando a milioni. Loro parlano di 2 o 3 milioni di “incontri”, ma io dico che sono 15, 20 milioni di persone che non vediamo. E vengono dalle prigioni. È un’invasione. E poi li faranno votare, ma questa è un’altra storia.

    Una storia che conosco bene. Come quella della NATO. Debole. Inutile. Quando sono arrivato io, forse 5 Paesi pagavano la loro quota. Cinque! Una barzelletta. Io li ho guardati negli occhi e ho detto: “Se non pagate, la Russia faccia di voi quello che diavolo vuole”. Si sono messi a tremare. E ora pagano tutti. Tutti! Sono passati da 5 a più di 20. Loro dicono: “Ma l’accordo era del 2014, prima di te…”. Irrilevante. Non stavano pagando. Io li ho fatti pagare. Io ho salvato l’Occidente.

    Perché io sono per la pace. Nessuno vuole la pace più di me. Ho fermato sei guerre. Sei. Mi chiamavano, leader mondiali, piangendo, e io in 24 ore sistemavo tutto. Finito. Pace. Bellissimo. Poi i media, i soliti, dicevano ‘Ma la guerra stava già finendo…’ oppure ‘La tregua è durata solo due giorni’. Dettagli. Io ho fatto la mia parte, ho portato la pace. Se loro non sono capaci di tenersela, non è un mio problema. La pace si ottiene con la forza. Per questo il nostro ‘Ministero della Difesa’ suona debole. Difesa? Noi dominiamo. Dovrebbe chiamarsi ‘Dipartimento della Guerra’. È più onesto. È più forte.

    Il mio problema, se ne ho uno, è che vedo la realtà per quello che dovrebbe essere, non per quello che dicono i loro noiosi numeretti. E la mia versione è sempre la migliore.

    Grazie. Siete un pubblico magnifico. Veramente.

  • E quello che farete al più piccolo tra voi…

    E quello che farete al più piccolo tra voi…

    Ci sono parole che non si possono addomesticare. Parole che non invecchiano. Parole che, se le prendi sul serio, ti costringono a guardarti dentro senza scuse.

    Gesù, durante la sua Passione, sorprende sempre. Non grida vendetta, non lancia maledizioni. Non cerca nemmeno di difendersi: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno.”

    Ma quando si tratta dei piccoli, delle creature fragili, la sua voce diventa di pietra. Nessuna sfumatura, nessun compromesso: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me».

    È una sentenza, nuda e cruda. Non parla di colpe generiche, parla di azioni concrete. O fai, o non fai. E se non lo fai, è come se avessi voltato le spalle a Lui.

    E allora, ditemi: quando qualcuno brandisce il Vangelo come un’arma da comizio, quando urla “Dio, Patria e Famiglia” da un palco politico, ha davvero capito che cosa sta pronunciando? Perché se Dio è ridotto a un logo elettorale, se la Patria diventa un recinto che esclude, se la Famiglia è soltanto una parola vuota buona per i manifesti… allora siamo già fuori strada.

    Il Vangelo non si piega alle convenienze. Il Vangelo ti scomoda, ti costringe a cambiare, a guardare chi non vorresti guardare: il povero, lo straniero, il bambino che non ha nulla.

    Viviamo in un mondo che classifica anche l’innocenza. Ci sono bambini che hanno diritto alla scuola, al gioco, a un futuro. E bambini che nascono già scartati, già segnati da una condanna invisibile.

    Non parliamo solo di “serie A” e “serie B”: la verità più dura è che la maggioranza non entra nemmeno in campo. Non hanno scarpe, non hanno arbitri, non hanno regole che li proteggano. Sono fuori dal campionato della vita prima ancora di cominciare.

    E poi c’è Gaza.

    Ogni giorno, immagini di ospedali sventrati, scuole trasformate in macerie, bambini estratti dalla polvere con gli occhi spalancati di terrore.

    Eppure, se osi dire che è inaccettabile, ti accusano di… antisemitismo. Ma i veri antisemiti non sono forse quelli che legittimano il genocidio di un popolo, tradendo la stessa memoria che dicono di difendere?

    Chi applaude alle bombe non protegge nessuno: semina solo odio che tornerà, ancora più feroce.

    Il bambino di Gaza sotto le macerie e il bambino di Tel Aviv in un bunker hanno lo stesso diritto di svegliarsi domattina.

    E non sono diversi dal bambino di Milano o di Nairobi: Il dolore ha lo stesso pianto, la stessa fame, la stessa paura.

    Il Vangelo non dice: “Proteggete solo quelli che vi somigliano”. Dice: «Quello che fate, o non fate, al più piccolo… lo fate, o non lo fate, a me».

    La domanda, alla fine, resta lì. Immobile, tagliente come una lama.

    Se fosse tuo figlio sotto quelle macerie? Se fosse tua figlia a non avere un letto, un bicchiere d’acqua, una carezza? Ti basterebbe ancora dire: “Non è affar mio”?

    Forse è qui che Gesù ci mette con le spalle al muro: non davanti a Dio, ma davanti a noi stessi. Perché non si tratta di religione, né di politica, né di ideologia.

    Si tratta di sguardi.

    Di volti concreti.

    Di mani piccole da stringere.

    È lì che si misura la nostra umanità.

    E, se davvero crediamo in qualcosa, è lì che si misura anche la nostra fede.

    Il resto sono solo le stramaledette parole una politica senza più un briciolo di anima.

  • DEVO COMMENTARE!

    Illustrazione in stile cartoon di Ricky in pigiama, seduto al computer. Sullo schermo appare la scritta “Buongiorno!” con l’emoji del sole. Sfondo giallo caldo, atmosfera ironica e leggera.
    Cronache dal Far West dei social

    Scrivi un innocuo “Buongiorno 🌞” su Facebook.
    Pensi di aver lanciato un messaggio di pace universale, un piccolo seme di positività nel caos digitale.

    Illuso.

    In tre secondi netti, il tuo buongiorno viene intercettato dai droni della polemica e piovono le risposte:
    • “Buongiorno a chi??? A me no di sicuro! Parla per te!”
    • “Il sole di oggi è palesemente meno luminoso di quello del 1987. Tipico pressapochismo moderno. Studia la meteorologia storica, ignorante.”
    • “Il tuo post è offensivo nei confronti di chi soffre d’insonnia e dei vampiri. Un po’ di sensibilità, VERGOGNA.”

    E tu volevi solo salutare. Forse, con un po’ di ottimismo, strappare un sorriso.

    Il problema è che sui social la gente ha smesso di leggere.
    Ora reagisce d’impulso.

    Ogni dialogo rischia di essere una detonazione.
    Siamo passati dalla connessione alla compulsione.

    Non importa se hai condiviso un trattato filosofico di Heidegger, la foto del tuo gatto che dorme in una posa impossibile o la notizia della scomparsa di una celebrità: l’impulso pavloviano è più forte.
    Scatta il bisogno irrefrenabile di lasciare un segno, di piantare una bandierina.

    Il commento è l’urlo primitivo dell’Homo Digitalis: non scrivere equivale a non esistere.
    E l’esistenza, qui, si misura in byte di indignazione.

    I social network, ovviamente, lo sanno benissimo.
    Anzi, hanno costruito su questo la loro fortuna.

    Ogni insulto, ogni “boomer”, ogni “svegliaaa!”, ogni correzione non richiesta è carburante per il motore.
    Più commenti, più scontri, più tempo speso sulla piattaforma.

    Più tempo online = più dati raccolti = più soldi dagli inserzionisti.

    L’odio va considerato la vera feature del sistema, altro che bug:
    è l’olio che lubrifica la macchina perfetta e spietata del traffico digitale.

    E in questa arena, ci sono i gladiatori. Possiamo dividerli in categorie:
    L’Archeologo del “si stava meglio quando”: qualsiasi cosa tu posti, era meglio prima. Le canzoni, le estati, l’aria, persino le guerre.
    Il Cecchino della Sintassi: ignora il contenuto del tuo post per scovare quel congiuntivo sbagliato o l’accento mancante. La sua missione è una crociata grammaticale che ignora totalmente la comprensione.
    L’Offeso Esistenziale: convinto che ogni parola che scrivi sia un attacco personale e cifrato contro di lui. Il tuo “buongiorno” era chiaramente una frecciata perché sa che lui ha dormito male.

    Poi, quando il livello si alza, arrivano i professionisti: le fabbriche dell’odio.

    Bot, troll e account fasulli che inondano le bacheche con migliaia di commenti copia-incolla.
    E quando la politica decide di farsi un lifting digitale, ecco che la magia si compie: sotto al post di un onorevole italiano compaiono 500 cuori da Amit Patel, Chinedu Okafor e Fatima Banu.

    Tutti magicamente ferratissimi sulla legge di bilancio italiana e convinti che:
    “Che leader! É il futuro della nostra nazione!!!”

    Peccato che la loro nazione sia a 7000 km di distanza.

    Intanto il commentatore seriale, quello in carne e ossa, continua la sua missione solitaria.
    Rinuncia al dialogo per avere un pulpito.
    Rinuncia a capire per poter sentenziare.

    Vive per correggere, puntualizzare, demolire.

    Non dorme, non mangia, non ama: commenta.
    Un click dopo l’altro, con la furia di un eroe tragico, come se il destino del pianeta intero dipendesse da quell’emoji arrabbiata lasciata sotto la tua ricetta della carbonara.

    E tu?
    Tu guardi lo schermo, il tuo piccolo sole digitale sommerso dal fango.
    Tu volevi solo dire buongiorno.

    La prossima volta vai al bar. ☕️