Categoria: Musica

  • Natus Est: Cronaca di un Esperimento Diventato Album (Quasi per Caso)

    Natus Est: Cronaca di un Esperimento Diventato Album (Quasi per Caso)

    Natus Est è la Messa di Natale di Cohors Petrae in chiave metal.
    La copertina di Natus Est

    Come Si Arriva a Fare una Messa di Natale Metal (Senza Averlo Pianificato)

    Non è che un giorno mi sono svegliato pensando “farò una Messa di Natale in chiave metal e sarà epica”. È andata diversamente. Qualche anno fa ho iniziato a giocare con l’idea di prendere testi liturgici — quelli che senti a Messa, quelli in latino che non capisci mai fino in fondo — e tradurli in musica moderna. Non per dissacrare, ma per capire.

    I primi esperimenti erano piccoli: un “Gloria In Excelsis Deo”, un “Kyrie”. Li ho fatti ascoltare a qualche persona, a qualche amico musicista, anche ad un paio di sacerdoti. E invece di storcere il naso, hanno reagito bene. Molto bene. Passo dopo passo, brano dopo brano, “Natus Est” ha preso forma quasi da solo.

    La Domanda Che Ha Cambiato Tutto

    L’anno scorso, come “Cohors Petrae”, abbiamo pubblicato “È Nato Il Re” come singolo. Ha funzionato meglio del previsto. E “Otto Giorni”, con la Settimana Santa vissuta da dentro, ci ha regalato la soddisfazione di aver portato molte persone dentro al mistero della Resurrezione. E lì ci siamo posti una domanda semplice ma scomoda: in un periodo in cui tutti parlano di “spirito”, chi lo sente davvero? Gente che scorre feed, consuma contenuti, usa hashtag natalizi. Ma sentire — sentire davvero — è un’altra cosa.

    Abbiamo deciso di provare a farlo SENTIRE noi, quel mistero. Non attraverso candeline profumate o playlist ambient, ma con chitarre distorte e orchestrazioni sinfoniche. Perché se ci pensi, Dio che si fa carne in una stalla — non in un palazzo, non con onori, ma in una stalla — è oggettivamente la cosa più dirompente, più rumorosa, più sovversiva della storia. Un terremoto cosmico. E i terremoti non si sussurrano.

    12 Brani, Una Liturgia Intera

    “Natus Est” segue la struttura completa della Messa di Natale. Non è un concept album inventato: è la liturgia vera, quella che la Chiesa celebra da secoli, tradotta in metal progressivo:

    1. È Nato Il Re
    2. Kyrie
    3. Gloria In Excelsis Deo
    4. Oggi È Nato Per Noi Il Salvatore
    5. Alleluia
    6. Credo In Unum Deum
    7. Pane E Vino
    8. Sanctus
    9. Padre Nostro
    10. Agnus Dei
    11. Magnificat
    12. Nasce Il Salvatore

    Ogni brano abita una tensione: rispetto totale per la fede, libertà totale nell’espressione. Testi latini e italiani, chitarre che distorcono ma non tradiscono, blast beat che servono il mistero invece di coprirlo.

    Una Natività Che Nessuno Vede

    La copertina dice quello che l’album prova a fare: una Natività ambientata in una metropolitana moderna, persone che camminano distratte con i telefoni in mano, e lì, a terra, la Sacra Famiglia ignorata. È il mondo in cui viviamo. Connessi ma assenti. Parliamo di spirito ma non lo ascoltiamo.

    Questo album non risolve nulla. Non pretende di convertire nessuno. È solo un tentativo — nostro, personale, imperfetto — di amplificare qualcosa che rischia di perdersi nel rumore di fondo. Di ricordare che quella nascita non fu un evento dolce e silenzioso. Fu uno scandalo.

    Non Vogliano Offendere Nessuno.

    Abbiamo fatto quello che sentivamo andasse fatto, nel modo in cui andava fatto. È un album che rispetta la liturgia e la fede, ma cerca una lingua nuova per dirle. Dodici brani che provano a far sentire — davvero sentire — quel mistero che rischia di perdersi nel rumore di fondo.
    Non so se funzionerà, se arriverà alle persone giuste, se verremo scomunicati, se qualcuno lo ascolterà dall’inizio alla fine come andrebbe ascoltato. Ma è lì. E per noi, questo basta.

    Dove Ascoltare

    “Natus Est” è disponibile su:

    Spotify

    Apple Music

    YouTube

    Amazon Music

    Pandora

    Tidal

    Se ti interessa, ascoltalo come si ascolta una Messa: dall’inizio alla fine, senza saltare. Oppure no, fai come senti. Ma sappi che è lì, se lo vuoi.

  • Fisica, musica, una nipote e tanti giovani non pigri.

    Oltre 90 studenti del Liceo Marchesi sfidano i luoghi comuni sui giovani. Un concerto a Murelle che dimostra come la passione (e la musica) possa rompere ogni pregiudizio.
    I giovani musicisti del Liceo Marchesi

    Poche cose sono in grado di hackerare il nostro cervello come la musica. Di aprirlo come una scatoletta di tonno e ribaltarne il contenuto.

    Se ci pensate con freddezza scientifica, è un meccanismo assurdo. Un pezzo di legno morto e metallo freddo vibra perché sfiorato da un crine di cavallo (o percosso, o pizzicato). Queste vibrazioni spostano l’aria, che prende a schiaffi delicati gli ossicini dentro le nostre orecchie. Il cervello decodifica tutto questo e… bam.
    Improvvisamente piangi. O ridi. O ti senti invincibile.
    Stai ricevendo un file zip emotivo compresso secoli fa da un tizio con la parrucca dall’altra parte del mondo, e il tuo sistema operativo lo sta scompattando in tempo reale, colpendoti dritto allo stomaco.

    Un meccanismo di una complessità immane, eppure capace di annullare lo spazio e il tempo in un istante.

    Che dannata meraviglia.
    Ieri questo miracolo della fisica si è ripetuto. Sono stato a Murelle, nell’Alta Padovana, nella Chiesa di Santa Maria Assunta. Un gioiellino barocco che profuma di storia, con i suoi stucchi e quel pavimento in marmo che ha visto passare generazioni.

    Ma non ero lì per l’architettura. Ero lì per mia nipote Emma e per il Concerto di Natale del Liceo Musicale Marchesi.
    Davanti a me non c’erano “ragazzini”. C’erano più di 90 professionisti in erba, dai 14 ai 19 anni. Novanta anime armate di archi, fiati, percussioni, arpe e pianoforte.
    Quando hanno attaccato, la chiesa non era più una chiesa. Era un oceano.
    Un coro che sapeva essere brezza leggera un attimo prima, per poi diventare tempesta e spettinarti l’anima quello dopo.

    Ho guardato Emma. Ho guardato i suoi compagni. La concentrazione, il sudore, gli sguardi d’intesa. Lì in mezzo, tra una battuta e l’altra, stavano costruendo mondi.
    E qui mi sale il cinismo, ma verso il bersaglio giusto.
    Quante volte sentiamo dire che i giovani d’oggi non hanno voglia di fare niente? Che sono pigri, senza nerbo, persi dietro a uno schermo?
    Bullshit. Tutte cazzate.

    La mia esperienza — quella di ieri sera, ma anche quella col piccolo coro che dirigo — mi dice un’altra verità. Una verità scomoda per gli adulti mediocri: i ragazzi non sono spenti. Siamo noi che spesso non sappiamo accenderli.
    Se questi “giovani sdraiati” hanno la fortuna di incrociare adulti capaci di trasmettere VERA PASSIONE, di trattarli con rispetto e di sfidarli con la bellezza, loro non solo si alzano. Loro spaccano il mondo.
    I ragazzi del Marchesi ieri non stavano “facendo un compitino”. Stavano rompendo le convenzioni.

    Un grazie gigante va a quei professori che non timbrano il cartellino, ma vivono la loro materia. Quelli che, come ieri, dirigono non con la bacchetta, ma con il cuore in mano.
    La musica è fisica, sì. Ma quello che ho visto ieri è pura alchimia umana. E finché ci sarà, il futuro è in buone mani.

  • Tre anni sotto pelle.

    Tre anni sotto pelle.

    Storia di un’ispirazione ritrovata

    Ieri Facebook mi ha fatto vedere un ricordo: io nel mio studio artigianale, chitarra in mano, che suonavo l’inizio di qualcosa di nuovo. GarageBand aperto, effetto chitarra imbarazzante, e quella didascalia romantica sulle molecole dell’aria che vibrano. Di quelle note me ne sono dimenticato quasi subito.
    O almeno credevo.

    Il Momento

    Quando ho rivisto quel video, è successo qualcosa di strano. Non ho pensato “ah, carino”. Ho sentito il brano finito. Tutto. Mixato, con gli effetti giusti, ogni parte al suo posto. Come se i tre anni nel mezzo non fossero mai esistiti, come se quel suono grezzo del 2022 fosse solo l’anteprima di una cosa che esisteva già da qualche parte e dovevo solo andare a prenderla.
    Non ci ho pensato due volte. Sono corso in studio, ho aperto Logic Pro, e l’ho fatto. Quello che vedevo, quello che sentivo, quello che era già lì.

    Semini un’idea

    Tre anni fa quelle note erano imperfette. Registrate male, suonate peggio, ma dentro c’era qualcosa. Lo sentivo. Quella vibrazione sottopelle di cui scrivevo nella didascalia — non era retorica. Era vera. C’era un’emozione che cercava forma, e io stavo provando a darle voce.
    Poi è arrivata la vita. Altri progetti, altre canzoni, altre ossessioni. E quel file è finito sepolto in una cartella che non aprivo più.
    Per tre anni ho creduto di aver “perso” quell’idea. Che fosse uno di quei semi caduti sulla pietra, senza terra dove attecchire. Ma mi sbagliavo.

    Il Tempo Nascosto

    Non so dove sia stata quell’idea per tre anni. Non credo di averci pensato consciamente nemmeno una volta. Eppure quando l’ho risentita, era già cresciuta. Non dovevo inventare niente, solo ascoltare quello che era diventata da sola, in qualche angolo nascosto del cervello dove le cose continuano a vivere anche quando non le guardi.
    È una sensazione che conosco bene, ma che ogni volta mi sorprende. Quell’attimo in cui capisci che l’ispirazione non è un fulmine che o lo cogli o sparisce. È più simile a un seme. Alcuni germogliano subito, altri hanno bisogno di buio, di tempo, di dimenticanza.
    Di tre anni, a quanto pare.

    Quello Che Resta

    Questa storia mi ha ricordato una cosa che tendo a dimenticare quando mi faccio prendere dall’ansia produttiva: non tutte le idee devono fiorire subito. Alcune hanno bisogno di stare nell’ombra. Di essere dimenticate. Di aspettare che tu diventi la persona in grado di realizzarle.
    L’ispirazione non si perde. Si nasconde, si trasforma, aspetta. E quando torna, lo fa con una chiarezza che non aveva tre anni prima.
    Ho ricreato il video partendo proprio da quel primo momento. Quaranta secondi che raccontano tre anni in due atti. Ma questa storia — quella vera, quella delle idee che crescono nel buio — quella sta qui.
    Dove le cose hanno il tempo di aspettare.

    P.S. — Il brano è synth-pop, ma chissenefrega. Alcune vibrazioni non hanno genere, hanno solo bisogno del momento giusto per diventare suono. 🎹✨

  • Il Re dei “Glitch”: Perché Freddie Mercury manderebbe in crash l’Algoritmo (e perché ne abbiamo un disperato bisogno)

    Il Re dei “Glitch”: Perché Freddie Mercury manderebbe in crash l’Algoritmo

    L’Anomalia nel Sistema

    Il 24 novembre il mondo si ferma, preme pausa sullo scroll infinito e ricorda. È uno di quei giorni in cui la mediocrità del feed quotidiano mi sta stretta come una camicia di due taglie in meno. E come succede sempre quando l’aria si fa viziata, torno da lui.
    Mentre scorrevo i tributi, tra una foto sgranata e quel video sacro di Wembley ‘86, una domanda cinica, quasi fastidiosa, mi si è piantata in testa come un chiodo: in questo 2025 iper-ottimizzato, Freddie ce l’avrebbe fatta?
    Oggi, dove tutto deve essere platform ready, dove i brani vengono chirurgicamente amputati per evitare lo “skip” nei primi 3 secondi e i generi sono gabbie dorate per le playlist editoriali di Spotify, c’è ancora spazio per un Parsi che mescola opera, hard rock e balletto senza chiedere permesso?

    Il Caos vs. Il Codice

    Freddie era l’antitesi dell’algoritmo. L’algoritmo ama la prevedibilità, la ripetizione, la “comfort zone”. Freddie amava il baratro.
    Prendete A Night at the Opera. Era un eccesso continuo, un dito medio alzato in faccia ai limiti di budget e di genere. Provate a immaginare di proporre oggi Bohemian Rhapsody a un discografico ossessionato da TikTok:
    «Senti caro, bella è bella. Ma l’intro è lenta, annoia. Il ritornello arriva dopo 3 minuti? Follia. Tagliamola a 15 secondi, mettiamo il drop subito, o non diventerà mai virale nei Reel». Ma almeno una volta la si poteva fare in barba ad un “umano”… chiedete a Ray Foster!
    L’algoritmo cerca il finish rate (la percentuale di chi finisce il brano); Freddie cercava l’estasi, il brivido lungo la schiena. Sono due sport diversi giocati su pianeti opposti.

    Incubo per i Metadati: L’Impossibilità di Etichettare un Dio

    Se provaste a “taggare” la discografia dei Queen per addestrare una AI musicale, probabilmente mandereste in kernel panic il server. Non era solo rock. Era tutto, ovunque, contemporaneamente.

    • Rockabilly? Fatto, con Crazy Little Thing Called Love (scritta in una vasca da bagno in 10 minuti, alla faccia della sovra-produzione).
    • Hard Rock? Ha tirato fuori gli artigli con la potenza granitica di I Want It All e la ferocia quasi metal di The Hitman. Pezzi che urlavano “arena” e che avrebbero fatto crollare Wembley, se solo avessero avuto il tempo di portarli su un palco.
    • Disco-Funk? Fatto, con Another One Bites the Dust, costringendo a ballare anche i metallari più intransigenti grazie a quel giro di basso illegale.
    • Jazz? Assolutamente. Si è seduto al piano per sussurrare un jazz fumoso e notturno in My Melancholy Blues, o per giocare con lo stile Dixieland in Good Company.
    • Synth-Pop? Ha abbracciato i sintetizzatori da classifica con Radio Ga Ga, anticipando il futuro.
    • Vaudeville e Opera? Dal teatro anni ’20 di Seaside Rendezvous fino all’apoteosi lirica di Barcelona con la Caballé.

    Oggi un consulente marketing gli direbbe che “confonde l’audience”. Che manca di “verticalità”. Che per posizionarsi nella SERP deve scegliere una keyword e martellarla. Lui rispondeva mescolando tutto nello stesso album, a volte nella stessa maledetta canzone (vedi Innuendo: flamenco, hard rock e orchestra in 6 minuti).
    Freddie non era una keyword, era un intero dizionario.

    La Solitudine del Multiverso (e la mia confessione)


    Qui scendo dal pulpito e mi guardo allo specchio. Con l’umiltà di chi osserva l’Everest dal campo base, confesso: in quell’insofferenza alle etichette, io mi ci rivedo.
    Quante volte mi sono sentito dire: “Ricky, ma non si capisce che fai. Fotografo? Tech blogger? Scrittore?”. Oppure il classico, terribile: “Sei troppo”.
    Troppo cosa? Troppo complesso? Troppo vario? Troppo vivo per stare in un database?
    Nel laboratorio creativo del RickyVerso, combatto ogni giorno la stessa battaglia. Spaziare tra i generi — dalla fotografia alla tecnologia, dai racconti distopici alla musica progressive — oggi è visto dal marketing come una “mancanza di focus”. Il mantra è: “Trova la tua nicchia”.
    Ma se la tua nicchia fosse l’Universo intero? Se la tua curiosità si rifiutasse di abitare in un monolocale?
    Quando ti dicono “sei troppo”, in realtà ti stanno dicendo “non rientri nella mia casella Excel”. E sapete una cosa? Meno male.

    Cercare la Bellezza nel Rumore

    Forse la risposta alla mia domanda iniziale è no. Oggi Freddie farebbe una fatica immane. Probabilmente verrebbe scartato ai bootcamp di X-Factor perché “troppo teatrale” o “poco radiofonico”.
    Ma è proprio per questo che dobbiamo ricordarlo con rabbia, non solo con nostalgia. Freddie è il promemoria vivente che l’umanità è disordinata, incoerente e magnifica.
    L’algoritmo può prevedere cosa comprerai domani, ma non potrà mai sorprenderti come un uomo in canottiera bianca che, senza smartphone, tiene in pugno 72.000 anime con un solo vocalizzo.
    La bellezza è un atto di ribellione. Essere indefinibili è l’unica vera resistenza rimasta. Continuiamo a creare il “troppo”, anche se l’algoritmo non lo capisce.
    Anzi, soprattutto perché non lo capisce.

  • Don’t Touch Her: Quando il Rock diventa uno scudo (e la gentilezza una rivoluzione)

    Don’t Touch Her: Quando il Rock diventa uno scudo (e la gentilezza una rivoluzione)

    Oggi è il 25 novembre. Una data che non dovrebbe esistere sul calendario, ma che purtroppo pesa come un macigno. È la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.

    Quest’anno il mondo punta i riflettori sulla “violenza digitale”, su quelle minacce che viaggiano veloci attraverso gli schermi. Ed è paradossale, vero? Viviamo immersi nella tecnologia, nell’AI, nel futuro, eppure siamo ancora qui a dover ribadire un concetto primordiale, fisico, essenziale: non toccarla.

    L’anno scorso, con la mia band “diffusa” 80 Hundred Miles, abbiamo deciso di non restare in silenzio. Abbiamo preso chitarre, distorsioni e quel nostro “cuore gentile dal sangue bollente” per creare “Don’t Touch Her”.

    Guardatevi intorno. Le classifiche sono piene di giovanissimi “artisti” che masticano parole di spregio come fossero caramelle, normalizzando un linguaggio che trasforma la donna in un oggetto da consumare. Noi, che forse siamo “vecchi” per l’algoritmo ma non per l’anima, rispondiamo con un muro di suono.

    Moly Cat, voce australiana di discendenze Maori, di enorme talento.
    Moly Cat

    Per questo brano non ci siamo accontentati della nostra voce. Abbiamo lanciato un ponte sonoro fino in Australia per coinvolgere Moly Cat, una nostra amica: dolce, sì, ma con una grinta capace di tagliare il mix come un rasoio. Perché la distanza fisica non conta quando l’intento è comune. Le parole che abbiamo scritto io e Michiko sono un invito a non voltarsi dall’altra parte.
    Il risultato è una Metal Ballad che non chiede permesso. Urla.

    “Don’t touch her, don’t break her

    She’s fire, she’s the storm.


    Don’t hurt her, don’t shake her,


    Respect’s the norm.”


    Il rispetto non è un optional, è la norma. O almeno, dovrebbe esserlo.
 In “Don’t Touch Her”, la musica si fa scudo. Le parole non sono lame che feriscono, ma barriere che proteggono. È il nostro modo di dire che la vera forza non sta nell’alzare le mani, ma nel sapere dove stare: dalla parte della dignità. Sempre.

    Ascoltatela qui, a tutto volume. Perché a volte il rock serve proprio a questo: a coprire il rumore dell’indifferenza.

    Michiko, Ricky, Michal, Nguyet, Cody & Moly

    Credits:

    • Performed by: 80 Hundred Miles with Moly Cat
    • Album: Divergent Tales
    • Music: Ricky Guariento
    • Lyrics: Ricky Guariento, Michiko Funakoshi
    • Genre: Rock / Metal Ballad

  • L’insostenibile leggerezza dello “Skip”: Un’odissea sonora che sfida la dittatura dell’algoritmo

    Di Leandro Vianna
    Critico Musicale Senior, Editoriale Musica & Tecnologia per Roadie Metal

    Un’Odissea Sonora

    In un’epoca in cui la soglia dell’attenzione è scesa sotto i sette secondi e i produttori tagliano i ritornelli per incastrarli nelle logiche frenetiche di TikTok, pubblicare un brano che supera abbondantemente gli otto minuti non è solo una scelta artistica: è un atto politico. È una dichiarazione di guerra.

    Ho passato le ultime ore immerso nel file audio del nuovo lavoro di Ricky Guariento e Michiko Funakoshi, e la prima cosa che colpisce non è una singola melodia, ma la mole dell’opera. Siamo di fronte a una struttura che rifiuta la forma canzone strofa-ritornello in favore di una narrazione lineare, quasi cinematografica. L’intento dichiarato è una crociata contro gli algoritmi di streaming, quelle entità digitali che premiano la brevità e la ripetizione. Ma la domanda che ogni critico deve porsi è: la musica sostiene il peso di questa ambizione?

    La risposta, sorprendentemente, è un sì convinto, anche se non privo di asperità.

    Ricky & Michiko

    Analisi Tecnica e Strutturale

    Il brano si apre con un incipit pianistico (0:00 – 0:45) che funge da “filtro all’ingresso”. È delicato, con una progressione armonica che ricorda il prog-rock anni ’70, ma con una pulizia sonora moderna. È una trappola: chi cerca l’hook immediato se ne andrà qui. Chi resta, viene investito dall’entrata della band.

    L’ingresso della sezione ritmica e delle chitarre segna il passaggio al Symphonic Power Metal. Qui la tecnica di produzione è notevole. Nonostante la densità dell’arrangiamento – sentiamo strati di tastiere, un coro sintetico (o campionato) che riempie lo spettro delle frequenze medio-alte e chitarre distorte ritmiche – il mix mantiene una certa chiarezza.

    La sezione centrale è un compendio di virtuosismo. C’è un uso sapiente della doppia cassa, che non si limita a tenere il tempo ma accentua le dinamiche dei riff di chitarra. Gli assoli (sia di synth che di chitarra) sono eseguiti con perizia tecnica ineccepibile: scale veloci, sweep picking e armonizzazioni terzinate che strizzano l’occhio ai maestri del genere (Dream Theater, Stratovarius).

    Notevole il rallentamento verso i 3/4 del brano: una breakdown melodica che permette all’ascoltatore di respirare prima del climax finale. Questa gestione della dinamica è ciò che giustifica la lunghezza: il brano non è un loop allungato, è un viaggio con picchi e valli.

    Punti di Forza (The Highs)

    1. Coerenza Narrativa: Nonostante la lunghezza, il brano non sembra un collage di idee diverse incollate a forza. I temi melodici ritornano, variati e ri-arrangiati, dando un senso di unità all’opera.
    2. Il Coraggio dell’Arrangiamento: La fusione tra l’elettronica dei synth (che a tratti ricordano le colonne sonore sci-fi anni ’80) e la pesantezza del metal è gestita con gusto. Non suona datato, ma “retro-futurista”.
    3. La “Resistenza” all’Ascolto Passivo: Questo pezzo costringe l’ascoltatore a sedersi. Non può essere musica di sottofondo. In un mondo di background noise, chiedere attenzione attiva è il più grande pregio del brano.

    Punti Deboli (The Lows)

    1. Rischio di Saturazione: In alcuni passaggi (specialmente durante i picchi orchestrali uniti ai soli di chitarra), lo spettro sonoro è talmente saturo che si perde un po’ di “aria”. Un mix leggermente più dinamico, con meno compressione sul master bus, avrebbe giovato alla grandiosità del pezzo, evitando quella leggera fatica d’ascolto (ear fatigue) verso il minuto 8.
    2. L’Auto-indulgenza: È il tallone d’Achille del genere. Ci sono momenti, specialmente nelle sezioni soliste, in cui la tecnica sembra prendere il sopravvento sull’emozione. Per il musicista è un godimento, per l’ascoltatore medio potrebbe risultare un esercizio di stile un po’ freddo.
    3. L’Assenza di un “Gancio” Vocale Immediato:Se l’obiettivo è la crociata contro lo streaming, missione compiuta. Ma l’assenza di un motivo vocale centrale (o di uno strumento che lo sostituisca in modo iconico nei primi minuti) rende l’ingresso nel brano una barriera molto alta. È una scelta coerente, ma rischiosa.

    Verdetto

    Questo brano è un monolite. Si erge contro la corrente del consumo “liquido” come uno scoglio. Tecnicamente ineccepibile, strutturalmente complesso e ambizioso.
    Non finirà nelle playlist “Indie World” o “Viral 50”, e questo è esattamente il punto. È un pezzo per chi ama il disco fisico, per chi legge i crediti di copertina, per chi crede che la musica debba richiedere tempo per restituire emozione.

    La “crociata” è vinta? Forse non cambierà l’industria, ma offre un rifugio sicuro a chi cerca ancora l’epica nella musica.

    Voto: 8/10
    Per fan di: Dream Theater, Helloween, colonne sonore epiche, e chiunque odi il tasto “Shuffle”.

  • Metal-FM.com – Intervista a Ricky Guariento

    „Symphonic Reverie“, libertà creativa e il potere della resistenza

    Pubblicato il 18 Ottobre 2025

    L’artista visivo e polistrumentista italiano Ricky Guariento ha raccontato a Philipp Gottfried di Metal-FM la storia dietro “Symphonic Reverie”, un viaggio sonoro di 8 minuti e 32 secondi che manda affanculo le regole dello streaming moderno. In questa intervista, Ricky svela il processo creativo, la collaborazione internazionale con la batterista giapponese Michiko, e quella filosofia di resistenza artistica che è l’anima del RickyVerso. Si parla di integrità creativa, del rifiuto totale degli algoritmi, e della passione viscerale per il Progressive Metal autentico.

    🎵 Ascolta “Symphonic Reverie”

    Otto minuti di viaggio sonoro tra Progressive e Symphonic Metal

    🎧 Un tributo alle grandi suite progressive.
    Lasciati trasportare prima di leggere l’intervista.

    Philipp: Ricky, “Symphonic Reverie” dura oltre otto minuti: una scelta coraggiosa nell’era dello streaming. Cosa ti ha spinto a ignorare le aspettative algoritmiche e a creare una composizione così lunga?

    Ricky: Otto minuti non sono nulla se li paragoni alle leggendarie suite del Progressive Rock: “Supper’s Ready” dei Genesis, “Close to the Edge” degli Yes, “Thick as a Brick” dei Jethro Tull. Ricordo quando da adolescente infilavo le cuffie e mi perdevo in questi viaggi sonori infiniti. “Symphonic Reverie” è il mio piccolo tributo a quelle spedizioni musicali che semplicemente non puoi comprimere in tre minuti. Ma c’è di più: dovevo fare qualcosa di folle, oltre ogni logica. Dovevo smettere di preoccuparmi degli algoritmi, delle opinioni, dell’accettazione. È stato un regalo che ho fatto a me stesso.

    Philipp: Hai detto che questa pubblicazione è un regalo di compleanno. Che significato personale ha per te?

    Ricky: Ho iniziato a lavorarci l’anno scorso, per i miei 50 anni. Fino a quel momento, in tutte le mie produzioni e anche nei progetti con le band locali, c’era sempre un compromesso. Ho capito che era arrivato il momento di mostrare al mondo chi è davvero Ricky Guariento, nel bene o nel male. Nessun filtro, nessun adattamento. Solo io.

    Philipp: Il brano fonde Progressive e Symphonic Metal. Come fai a mantenere la profondità emotiva mentre esplori strutture tecniche complesse?

    Ricky: Per me la tecnica non è mai il fine: è il mezzo. Ogni nota, ogni cambio ritmico, ogni variazione melodica in “Symphonic Reverie” è stata pensata per servire il viaggio emotivo. La complessità senza emozione è solo rumore. Voglio che chi ascolta senta, non che ammiri solo l’abilità tecnica.

    Philipp: La tua collaborazione con Michiko attraversa 10.000 chilometri tra Italia e Giappone. Qual è stato l’aspetto più sorprendente di questo lavoro a distanza?

    Ricky: Lavoriamo insieme da tre anni, da quando il nostro amico comune Michal Dijkstra ci ha presentati e abbiamo fondato il progetto 80 Hundred Miles. La cosa che mi stupisce di più di Michiko è come questa minuscola batterista giapponese picchi la batteria con una potenza e una ferocia incredibili! Ma la cosa più importante: abbiamo una telepatia musicale, nonostante la distanza, le culture diverse, la differenza d’età. Probabilmente abbiamo lo stesso sangue metallico nelle vene! Quando le ho mandato i primi riff, ha detto subito “Sì”, prima ancora che finissi di spiegare. Aveva già capito tutto.

    Prima foto (tu e lei): “Ricky Guariento e Michiko - collaborazione Progressive Metal Italia Giappone

    Philipp: Hai detto che l’IA è stata solo un ponte, non un partner creativo. Dove tracci il confine tra arte umana e supporto tecnologico?

    Ricky: L’IA è uno strumento, un esecutore, non un partner creativo. L’ho usata per velocizzare il mixaggio: decine di frammenti brevi da allineare, sincronizzare, coordinare. Sarebbe stato folle non usare strumenti che semplificassero il processo. Ma il processo creativo, le decisioni, l’anima del lavoro: quello è tutto umano.

    Philipp: Come artista ispirato dal chiaroscuro di Caravaggio, pensi al suono in termini di luce e oscurità? Come influenza questo la tua narrazione musicale?

    Ricky: C’è un’espressione che adoro: “sonic painting”, pittura sonora. La mia passione per l’arte e la fotografia mi aiuta tantissimo in questo. Quando compongo, penso in termini di luce e ombra: questa sezione è buio, qui la luce esplode. Per esempio, il mio brano precedente “Doomsday” è stato costruito interamente su visualizzazioni. “Symphonic Reverie” è la stessa cosa: contrasti, drammaticità, cambi improvvisi di tono e intensità. È pittura sonora.

    Philipp: Il titolo “Symphonic Reverie” evoca qualcosa di onirico. Che viaggio mentale o emotivo volevi creare per chi ascolta?

    Ricky: Il titolo dice tutto: volevo creare una fantasticheria, un sogno ad occhi aperti. Non un viaggio lineare, ma un posto dove ognuno può perdersi e ritrovarsi. Volevo evocare quella sensazione che provi poco prima di addormentarti, quando realtà e fantasia si confondono e ogni suono diventa una storia. Se anche solo per qualche minuto dimentichi dove sei e semplicemente viaggi, nella mente o nel cuore, allora ho fatto il mio lavoro.

    Philipp: Molti artisti oggi inseguono la viralità invece della visione. Cosa significa per te l’integrità artistica quando gli algoritmi sembrano dettare il gusto?

    Ricky: Molti anni fa, anche se ne ho avuto l’occasione, ho rinunciato alla carriera musicale professionale. “La tua musica è interessante, ma…”, “Ok, ti produco, però facciamo qualcos’altro…”, “Dimentica quella roba, hai una bella voce…” E adesso dovrei farmi guidare da un algoritmo? Nessuna possibilità. Mi sono già rifiutato di scendere a compromessi quando me lo chiedevano gli esseri umani; perché dovrei inchinarmi a un pezzo di codice? Integrità artistica significa restare fedele alla tua visione, anche quando nessuno ti ascolta. Soprattutto in quel caso.

    Philipp: Riunisci diverse identità creative: il lavoro solista, la produzione di colonne sonore, gli 80 Hundred Miles e il progetto Cohors Petrae. Come si influenzano questi progetti?

    Ricky: E questi sono solo i più recenti! Solo alcune delle tante facce. Ho sperimentato di tutto, dal Jazz al Flamenco, dalla musica classica all’Electro-Pop, e spesso ho mescolato tutto cercando qualcosa di nuovo. Non mi piace definirmi. Ho sempre bisogno di nuovi stimoli, nuove avventure, ma alle mie condizioni. Come si influenzano? Direi che si fondono più che influenzarsi. Sono tutti parte dello stesso impulso creativo irrequieto.

    Philipp: La tua citazione “Vivere è creare, e creare è smettere di non vivere più” suona molto filosofica. Come vivi questa idea nel quotidiano?

    Ricky: Vivo in una costante urgenza creativa, ogni momento della giornata. Non so spiegarlo, ma quando mi sveglio la mattina ho già idee per un fumetto, una storia, un brano, una foto che voglio scattare. E durante la giornata, ogni piccola cosa – un gesto, una situazione, una frase – può diventare fonte d’ispirazione. È come se le mie antenne fossero sempre accese. La creazione non è qualcosa che pianifico: è il modo in cui respiro.

    Philipp: Una composizione strumentale significa raccontare senza parole. Come ti assicuri che l’emozione e la narrazione arrivino comunque?

    Ricky: Sperimento le emozioni su me stesso. Scrivo quello che voglio “sentire” quando ho bisogno di ascoltare qualcosa che trasmetta proprio quell’emozione. Compongo per l’ascoltatore che è in me e confido che gli altri ci trovino il proprio significato. Poi… ognuno può sentirla come gli ha insegnato la sua storia. Questo è il bello della musica strumentale: lascia spazio all’interpretazione.

    Philipp: Che ruolo hanno il silenzio o la moderazione nella tua musica, specialmente in un genere che spesso celebra intensità e complessità?

    Ricky: Il silenzio può essere più potente del caos che lo circonda. Può essere il respiro di cui hai bisogno quando scappi da qualcosa che fa paura. Può essere il momento di calma dopo un’emozione forte. Può essere la pausa per raccogliere i pensieri prima di continuare un lungo viaggio. Senza silenzio, l’intensità perde significato. È il contrasto che dà forza a entrambi.

    Philipp: Il Progressive Metal è sempre stato un genere in evoluzione. Dove pensi che risieda la prossima ondata di innovazione?

    Ricky: Paradossalmente, penso che il futuro del Prog Metal stia in un ritorno alle origini. Dopo anni di superiorità tecnica e auto-ammirazione, c’è un ritorno a un Prog più emotivo. Band come Haken e Caligula’s Horse sono esempi di come l’emozione non vada sacrificata alla tecnica. La prossima ondata non nascerà dal suonare più veloce, ma dal sentire più profondamente.

    Philipp: La collaborazione con Michiko unisce anche due culture. Questa esperienza ha cambiato la tua visione del ritmo, del timing o dell’energia?

    Ricky: A essere onesto: Michiko, pur avendo metà dei miei anni, ha tirato fuori esattamente quello che c’era in me. È stata sintonia totale su tutti i livelli. Parlavamo la stessa lingua musicale. La cultura non ha avuto importanza. L’età non ha avuto importanza. Quando due musicisti condividono lo stesso sangue metallico, la geografia diventa irrilevante. Lei ha capito cosa mi serviva prima ancora che finissi di spiegare.

    Philipp: Hai creato il tuo universo artistico: il “RickyVerso”. Come collega questo concetto musica, immagini e narrazione?

    Ricky: “RESISTENZA” è la parola che collega tutto. Resistenza contro l’ignoranza, l’odio, la crudeltà, le bugie e la falsa libertà. Voglio rendere visibile quello che le persone non vogliono vedere. Voglio dare un’opportunità a chi la pensa come me, a chi non ha paura di fermarsi e ascoltare musica per quasi nove minuti. A chi non si limita a sopravvivere seguendo il gregge, ma vuole essere la pecora nera. Il RickyVerso è un rifugio per gli irrequieti, gli insoddisfatti, i vigili.

    Philipp: Essendo commerciale per un’azienda che si occupa di acciaio di giorno e musicista di notte, trovi contrasti o parallelismi tra struttura aziendale e libertà artistica?

    Ricky: Direi che sono due vite parallele che a volte si intersecano. Anche nel mondo del business, oggi, creatività e capacità di distinguersi sono essenziali. E spesso uso la mia musica per le campagne di marketing della InoxTubi, così risparmio sui diritti d’autore (ride). Ma sul serio: entrambi i campi richiedono disciplina, visione e coraggio di rischiare. La differenza è: nel business negozi con i clienti. Nella musica negozi con te stesso. E comunque, l’acciaio inossidabile è sempre… Metallo!

    Philipp: Ogni atto creativo comporta rischi: artistici, emotivi, anche finanziari. Quali rischi hai corso con “Symphonic Reverie”?

    Ricky: Il viaggio emotivo è stato intenso: alti e bassi tra euforia ed esaurimento. Ci sono stati momenti in cui non vedevo più l’obiettivo, ed era deprimente. Il rischio più grande era creare qualcosa che non interessasse a nessuno. Ma, onestamente? Non me ne fregava. Il complimento più bello che ho ricevuto è stato: “Non ti riconosco più. Questo non suona come te”. Missione compiuta. Significa che il vero Ricky è finalmente venuto fuori.

    Symphonic Reverie album cover - cattedrale gotica Progressive Metal

    Philipp: Se “Symphonic Reverie” fosse un’installazione artistica immersiva, come immagineresti lo spazio, le luci, le texture, l’atmosfera?

    Ricky: Immagino uno spazio come una cattedrale gotica, come quella sulla copertina dell’album. Volte alte, colonne di pietra. La luce parte dall’oscurità, poi lentamente si accendono raggi caldi color ambra da dietro, proiettando lunghe ombre. Con l’intensificarsi della musica, la luce pulsa e cambia: toni blu freddi nei passaggi tranquilli, oro incandescente e rosso profondo nelle sezioni pesanti. Le texture sarebbero pietra fredda in contrasto con l’illuminazione calda, esattamente come l’opposizione tra silenzio e caos nella musica stessa. Voglio che le persone si sentano contemporaneamente piccole e potenti. Circondate da qualcosa di antico ma pieno di energia nuova.

    Philipp: Per concludere, quale messaggio o emozione vuoi che gli ascoltatori portino con sé dopo l’ultima nota?

    Ricky: Semplicemente… che abbiano viaggiato con me. E qualunque emozione rimanga, spero che resti per un po’. Non persa nel prossimo scroll.

    Trovi l’intervista originale su Metal-FM.com

  • Quando la Musica parla più forte degli Algoritmi

    Screenshot del messaggio di Metal Planet Media che annuncia la pubblicazione di Symphonic Reverie di Ricky Guiariento su tutte le piattaforme social e streaming

    Oggi è un giorno particolare.

    Metal Planet ha pubblicato un articolo dedicato al mio brano “Symphonic Reverie”, condividendolo su Facebook, X (Twitter), LinkedIn, Bluesky e Threads. Il brano è stato aggiunto alla loro “Little Box of Wonders” su Spotify e YouTube.


    Non vi nascondo che mi ha fatto un effetto strano — nel senso migliore del termine.
    Non perché cercassi conferme esterne (chi mi conosce sa che non ho mai creato musica per piacere a qualcuno), ma perché è la dimostrazione che quando credi in qualcosa e vai avanti nonostante tutto, prima o poi qualcuno se ne accorge. Qualcuno capisce.


    Symphonic Reverie” nasce da un’urgenza espressiva che non potevo più contenere: 8 minuti e 32 secondi di progressive/symphonic metal strumentale che sfida apertamente la tirannia dell’algoritmo. In un’epoca dove la musica è stata ridotta a frammenti da 30 secondi per TikTok e Reels, questo brano è una dichiarazione di guerra e di integrità artistica.

    È una fusione di prog metal e symphonic metal che attinge dall’eredità di Dream Theater, Symphony X, Opeth, Savatage, Rhapsody of Fire, Queensrÿche, Fates Warning e Rush. Senza la pretesa di paragone! Volevo potenza, orchestrazione, tecnica e atmosfera, che si intrecciano in un viaggio sonoro che richiede ascolto attivo, non consumo passivo.
    Ma soprattutto, è il frutto di una collaborazione transcontinentale straordinaria con Michiko Funakoshi, batterista giapponese di Tokyo con cui avevo già collaborato negli 80 Hundred Miles. 10.000 chilometri di distanza, mesi di lavoro remoto, due mondi e due culture unite dalla stessa passione creativa.


    E mentre lo scrivevo, mentre lo producevo, c’era chi remava contro. Chi diceva “ma chi te lo fa fare?”, “chi vuoi che ti ascolti?”, “non é musica che funziona questa”. Ecco, a loro dedico un pensiero affettuoso: 🖕

    Ho continuato. Ho scelto di credere nella mia visione, nella mia musica che varia dal jazz al metal a seconda di come mi sveglio (ma il metallo scorre nelle mie vene da sempre, non c’è scampo,) nel mio RickyVerso fatto di note, parole, immagini e idee che nessuno mi aveva chiesto ma che io dovevo tirare fuori.


    E oggi Metal Planet condivide il mio lavoro. Piccola vittoria? Forse. Ma per me è la conferma che vale sempre la pena essere fedeli a se stessi.
    Grazie a chi ha sempre creduto in me, a chi mi ha supportato anche quando sembrava una follia. Grazie ai tre fan che ascoltano la mia musica con il cuore aperto.
    E grazie a chi ha remato contro: mi avete dato una motivazione in più per dimostrare che avevate torto.


    🔗 Leggi l’articolo su Metal Planet
    🔗 [Scarica la Press Release completa (PDF)](link qui sotto)
    🎧 Ascolta “Symphonic Reverie” su tutte le piattaforme: Spotify, Apple Music, Amazon Music, YouTube, Deezer, Tidal[amazonaws]

  • Il Superpotere degli Eterni Indecisi

    Ricky, un musicista creativo, abbraccia la sua chitarra acustica nera Gretsch in un momento di intima connessione, simbolo della scelta perfetta che supera l'indecisione.

    Ci sono delle persone che vengono mandate in crisi da un menù con più di tre pizze. Le riconosci subito: sono quelle che, di fronte alla domanda “Che si fa stasera?”, iniziano a sudare freddo, visualizzando contemporaneamente 17 scenari possibili, inclusa un’improbabile invasione aliena che renderebbe la scelta di un eventuale film totalmente irrilevante.

    Il mondo, che ha la pazienza di un gatto a cui tiri la coda, le etichetta subito: “indecise croniche”, “insicure”, “ma allora, ti muovi?”.
    La verità? È che queste persone hanno un superpotere che non sanno di avere. La loro mente non è un binario unico, è un’intera stazione centrale nell’ora di punta.
    Laddove una persona normale vede “birra o vino?”, loro vedono un diagramma di flusso. “La birra gonfia, ma è più estiva. Il vino però si abbina meglio al formaggio che forse ordinerò, a meno che non decida per il fritto, che con la birra è la morte sua. E se poi mi viene sonno? Meglio la birra, che è meno alcolica… o no?”. Il tutto in circa 0.5 secondi.


    È come avere un cervello in 8K. Mentre gli altri vedono “un film”, tu ne vedi già la potenziale delusione, il rischio spoiler, l’incompatibilità con lo stato d’animo attuale e la possibilità che tra due mesi esca la versione director’s cut e quindi forse converrebbe aspettare. Risultato? Passi un’ora a scorrere Netflix e finisci a guardare video di gente che scarta pacchi.

    Queste menti sono esploratrici instancabili di possibilità. Vedono le conseguenze, le sfumature, i mondi paralleli annidati in ogni piccola scelta. È una forma di profondo rispetto per la complessità, mascherata da una goffa esitazione.

    Poi, all’improvviso, nel bel mezzo di questo caos calmo, succede il miracolo.
    Dopo aver passato sei mesi a confrontare le specifiche tecniche di 42 modelli diversi e opposti, entri in un negozio e vedi quella chitarra. E non c’è più analisi che tenga. In un istante, cuore e cervello, istinto e fogli di calcolo mentali, smettono di litigare e si trovano d’accordo, puntando dritti verso di lei.
    Non è un colpo di fulmine. È una rivelazione. È il momento in cui tutte le variabili che hai sempre calcolato si allineano e formano un’unica, perfetta equazione.

    E in quell’istante, l’esploratore ha trovato la sua meta. E ti rendi conto che non si era mai perso. Stava solo cercando la strada di casa.

  • 6 Ottobre. Il giorno in cui Hyla bussó alla mia porta.

    Hyla, protagonista dell’omonimo album progressive metal strumentale del 6 ottobre 2022: guerriera mezza elfa con lunghi capelli biondi, spada sulle spalle e armatura decorata, ritratta in una foresta con luce cinematica - artwork fantasy per concept album di rinascita creativa

    Tre anni fa, ero bloccato a letto.
    Non per scelta. Per necessità. Un’operazione mi aveva tolto il movimento, ma non i pensieri. Anzi, forse li aveva amplificati. Troppo tempo, troppo silenzio, troppa immobilità per una mente abituata a correre.


    E poi lei è arrivata.


    Non come le muse arrivano nei racconti romantici, con squilli di tromba e apparizioni divine. No. Hyla è entrata dalla porta sul retro, quella che lasci sempre socchiusa per gli ospiti inattesi. Si è seduta accanto al letto. Mi ha guardato. E ha cominciato a parlare.


    Era mezza elfa, mezza umana. Né di qua né di là. Come me, in fondo. Sospesa tra mondi, tra battaglie vinte e ferite ancora aperte. Aveva combattuto mille guerre. Ne avrebbe combattute altre mille. Ma in quel momento, era lì. Con me. A raccontarmi chi era.


    E io l’ho ascoltata.


    Non ho fatto altro. Ho ascoltato le sue storie, i suoi silenzi, i suoi respiri. E mentre lei parlava, io rinascevo. Nota dopo nota, battito dopo battito, la musica ricominciava a scorrere. Non era più buio. Era luce filtrata, calda, quella che ti fa riaprire gli occhi piano.


    Hyla non è venuta per restare. E io non le ho mai chiesto di farlo. Le ho dato rifugio, tempo, spazio per rimettersi in piedi. E quando è stata pronta, l’ho lasciata andare. Senza catene, senza promesse. Con la sola certezza che, se avesse bussato di nuovo, io ci sarei stato.
    Sempre.

    Il 6 ottobre 2022 è uscito Hyla, l’album che porta il suo nome. Dieci tracce che raccontano il nostro incontro, le sue battaglie, il suo cammino. Un disco che è stato toccasana per me, e che spero possa esserlo anche per chi lo ascolta.


    Ogni tanto Hyla torna. Mi racconta una nuova storia. Nasce altra musica. Poi ci salutiamo, e io non so se la rivedrò ancora. Ma va bene così. Lei ha la sua missione. Io la mia l’ho compiuta: le ho dato un rifugio quando ne aveva bisogno.
    E la mia porta, per lei, sarà sempre aperta.
    Come se il tempo non fosse mai passato.

    🎧 Ascolta Hyla

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