Bambino sotto una campana di vetro, mentre fuori c’è la vita vera.
C’è una frase che funziona come un lucchetto. La senti e capisci subito che non è un dialogo: è una serranda abbassata con la scusa della prudenza.
“Tu non hai figli, cosa vuoi saperne.”
È vero: non ho figli. La vita non mi ha fatto questo regalo. Ma mi ha regalato una posizione privilegiata da “amico adulto” per molti ragazzi e ragazze. Quello con cui è più facile confidarsi proprio perché non è né un genitore né un professore, ma con cui si condivide una passione per qualcosa. Ed ho occhi per vedere, orecchie per sentire e una cosa che ultimamente sembra dare fastidio: una testa allenata a pensare. PENSARE, non “credere di sapere”…
E quando usi davvero la ragione, succede una cosa strana: riesci a guardare le cose senza quell’impasto emotivo che rende tutto intoccabile. Non sei “contro” i genitori. Non sei “contro” la paura. Sei contro il fatto che la paura si travesta da amore e passi inosservata.
Perché sì: proteggere è un verbo nobile. Ma c’è un punto—sottile, invisibile—oltre il quale proteggere diventa negare. Negare a un figlio di vivere. Di rischiare. Di sbagliare. Di imparare dai propri errori. E soprattutto: di appassionarsi a qualcosa.
Che poi è il grande paradosso. In teoria lo vuoi al sicuro. In pratica lo stai lasciando senza benzina interiore.
Se un ragazzo non può sporcarsi le mani con qualcosa che lo accende (musica, sport, amicizie, una sfida vera, una passione che lo prenda a schiaffi e poi lo rimetta in piedi), prima o poi cercherà una scintilla altrove. E verrà il giorno in cui avrà bisogno di sentirsi vivo: di trasgredire, di mettersi in gioco, di dimostrarsi di valere qualcosa. E lì la vita NON CHIEDERÀ a te il permesso.
Perché qualcuno, prima o poi, gli proporrà “la cosa sbagliata”.
E se tuo figlio non ha mai avuto spazio per sbagliare in piccolo—senza essere umiliato, senza essere salvato sempre, senza essere assolto a prescindere—rischia di imparare a sbagliare direttamente in grande. Sotto la campana di vetro si cresce puliti. Ma non si cresce forti.
E poi c’è un’altra cosa che fa danni, spesso insieme alla campana: lo scudo. Quello del “mio figlio non può avere torto”. Quello del “è stato provocato”. Quello del “non capite com’è fatto”. Capisco eccome. È fatto come tutti: confuso, fragile, potentissimo. E ha bisogno di due cose che oggi sembrano quasi eretiche:
conseguenze, quando sbaglia davvero
fiducia, quando prova davvero
Non è cattiveria. È educazione sentimentale alla realtà. Perché la realtà non è gentile. Ma può diventare bellissima, se uno impara a starci dentro senza implodere al primo urto. Quante volte avrei voluto dirlo, questo, a quei genitori che tengono i figli sotto una campana di vetro: che li difendono anche quando hanno torto marcio, che li proteggono da tutto, persino dal peso sano di una responsabilità.
E no: non sto parlando del “lasciamoli allo sbando”. Sto parlando del contrario: guidarli mentre rischiano. Stare accanto senza sostituirsi. Essere rete, non gabbia. Perché amare non è impedire la caduta. Amare è insegnare come ci si rialza.
Non serve essere analisti geopolitici per notare che qualcosa non torna. È la classica storia della pagliuzza e della trave, ma elevata a potenza nucleare.
Da una parte abbiamo l’amministrazione americana che, nel suo ultimo documento sulla sicurezza nazionale, si preoccupa della “fine della civiltà” europea. Detto da chi, solo pochi anni fa, ha ispirato un assalto al cuore della propria democrazia a Capitol Hill, suona come un piromane che ti critica per aver installato un sistema anti-incendio.
Dall’altra c’è il “Genuis” di X. L’uomo che ha trasformato la piazza digitale globale in un far west deregolamentato, dove l’odio è engagement e la verità è opzionale. Lui definisce l’Unione Europea — nata letteralmente sulle ceneri della guerra per impedire nuovi totalitarismi — il “Quarto Reich”
La chiamano proiezione psicologica. Io la chiamo, tecnicamente, una gigantesca presa per il culo.
La morte della vergogna
Ciò che mi colpisce, mentre mi rigiro nel letto cercando di svegliarmi del tutto, non è tanto l’accusa in sé. È l’assenza totale di imbarazzo.
Viviamo nell’era della “post-vergogna”. Non importa se il tuo pulpito scricchiola o se il tuo social network è diventato una cloaca a cielo aperto: l’importante è urlare l’accusa più grossa per primi.
Se accusi l’altro di essere un dittatore o un fallimento di civiltà, nessuno avrà il tempo di notare che tu stai smantellando i diritti civili o licenziando i moderatori che dovrebbero proteggere la democrazia.
Svegliarsi (ma per davvero!)
Ho fatto queste vignette mezzo addormentato, ma forse è proprio il sonno della ragione che genera questi mostri. O forse, l’unico modo per restare sani di mente è prenderla con una risata amara, aspettare che questi (e molti altri…) virus umani facciano il loro decorso.
La vera sfida, però, non è sopravvivere ai loro danni. È non farsi infettare dal loro odio mentre li guardiamo. Perché il rischio più grande non è la fine della civiltà. È finire per assomigliargli… e diventare a nostra volta mostri.
Ovvero: come ho scoperto che 10 intelligenze artificiali su 10 hanno problemi seri con l’italiano e il mio viso
A volte le cose nascono per caso. Le ispirazioni arrivano all’improvviso e non puoi fare altro che seguirle. E io, genio de noaltri, ho pensato: “Ehi! Trasformiamoci in un carcerato della mediocrità usando l’IA!”. Spoiler: la maggior parte di queste presunte “intelligenze” artificiali si sono rivelate più artificiali che intelligenti.
Dal Crimine della Mediocrità al Disastro del Riconoscimento Facciale
Stavo scrivendo un articolo sulla mediocrità online. Poi mi è venuta l’idea folle: creare un mugshot di me stesso come “criminale della creatività”, accusato di aver violato gli standard di mediocrità. Ho preso una mia foto (bruttissima tralatro), ho scritto un prompt dettagliatissimo, e l’ho dato in pasto a 9 diversi modelli AI usando lmarena.ai. Il risultato? Un festival dell’errore che merita un’analisi spietata
La Carneficina: Analisi Brutale Modello per Modello
Flux-1 Kontext Dev – BOCCIATO
Il crimine: Ha appeso il cartello AL MURO invece che darlo in mano. MA CHE SENSO HA?! È un mugshot, non una mostra d’arte contemporanea! Oltre a questo, la somiglianza c’è ma l’interpretazione del prompt è da scuola elementare.
Flux-1 Kontext Pro – DISASTRO TOTALE
Il crimine: Ha scritto “VNOULAZIONE MIOLLISOINIA ‘DL FAIE” e altre cazzate incomprensibili. Caro Flux Pro (che tra l’altro è la versione A PAGAMENTO), se non sai scrivere in italiano, almeno dillo. Costa pure di più e non sa fare lo spelling. Roba da denuncia al Codacons.
Flux-2 Pro – CHI È QUESTO SCONOSCIUTO?
Il crimine: Ha trasformato COMPLETAMENTE il mio viso. Potrebbe essere chiunque. Potrebbe essere mio cugino, il panettiere sotto casa, Brad Pitt invecchiato male. Ma non sono io. Zero somiglianza con l’immagine originale. Fail totale.
Flux-2 Flex – REALISMO SOTTOZERO
Il crimine: Sembra tutto meno che realistica. L’immagine ha quell’effetto plastificato stile action figure degli anni ’90. Se l’obiettivo era “hyper-realistic”, qualcuno dovrebbe spiegare a Flux cosa significa “realistic”.
Gemini 2.5 Flash (Nano Banana) – QUASI, MA…
Il crimine: Ha scritto “VIOLATIONE” invece di “VIOLAZIONE”. Caro Google, siamo nel 2025, l’italiano esiste da un po’ di secoli. Un errore ortografico su una parola così importante rovina tutto. Peccato, perché la somiglianza e l’atmosfera erano buone.
GPT-Image-1 (OpenAI) – MA CHI È ‘STO TIPO?
Il crimine: Ha travisato completamente l’immagine. Non è il mio volto. Punto. ChatGPT/OpenAI ha creato un’immagine bellissima, cinematografica, da Oscar… ma di un’altra persona. È come ordinare una pizza margherita e ricevere un sushi.
E I Vincitori Sono…
Nano Banana Pro (Gemini 3 Pro) – IL CAMPIONE
Finalmente! Mantiene la somiglianza, scrive correttamente “VIOLAZIONE DEGLI STANDARD DI MEDIOCRITÀ”, gestione luci e ombre perfetta, texture credibile. Costa qualcosa in più ma FUNZIONA. È come confrontare un chirurgo e un macellaio: entrambi tagliano, ma solo uno sa dove tagliare.
Qwen-Image-Edit (Alibaba) – IL VERO VINCITORE NASCOSTO
Qwen-Image-Edit, il modello di Alibaba da 20 miliardi di parametri, ha fatto quello che gli altri hanno solo sognato. È costruito su architettura dual-path: usa il Qwen 2.5-VL encoder per la comprensione semantica e un VAE (Variational Autoencoder) per la fedeltà dell’aspetto. Questa divisione gli permette di fare sia modifiche semantiche ampie che editing preciso pixel-per-pixel. Supporta editing semantico (rotazioni oggetti, cambio stile) E appearance editing (modifiche a livello di pixel con integrazione perfetta di luci e ombre). Ha capacità di text rendering bilingue (inglese E cinese) ed è rilasciato con licenza Apache 2.0 – completamente open source e commercial-friendly, più permissiva di Flux.
Reve-v1 – LA SORPRESA CINESE
Il modello cinese mantiene buona coerenza con il mio volto originale, scrittura quasi corretta, atmosfera credibile. Non sarà perfetto ma ha fatto il compito correttamente. Perchè sul podio? Costa un decimo della concorrenza… Ranking #5 su LMArena per l’editing e si vede il perché.
SeeDream-4 High Res – ALTRO COLPO CINESE
Altro modello cinese che tiene botta. Risoluzione quadrata, somiglianza convincente, testo leggibile. Costo ridotto rispetto ai blasoni occidentali e risultato superiore alla maggior parte dei competitor. I draghi stanno divorando il mercato.
Il Prompt Perfetto Sprecato
Per chi volesse capire dove hanno fallito, ecco l’immagine di partenza e il prompt DETTAGLIATISSIMO che ho usato: specifiche fotografiche (Nikon D5300, 50mm f/1.2L, ISO 400), descrizione dell’ambientazione, del soggetto, dell’illuminazione, del testo da scrivere:
“A hyper-realistic, cinematic mug shot portrait of a man (Critical Identity Lock: attached image) standing against a gritty, stylised police booking wall. The background is a textured concrete wall with faint scuff marks, smudged fingerprints, height lines (imperial measurements), and faded graffiti layered over institutional grey. The subject is framed dead centre, holding a black signboard that reads in bold white letters:
‘VIOLAZIONE DEGLI STANDARD DI MEDIOCRITÀ’
He wears a modern black-and-white prison-style outfit: slim-fit striped top or monochrome jumpsuit, edgy and fashion-forward rather than costume-like. The neckline and sleeves have subtle fraying. Clothes are dirty and consumed. Accessories like silver hoops or a worn leather wrist cuff give it a rebellious aesthetic. His expression is confident and unbothered, with a slight smirk — bold, clever, and unashamed. He is bald his head is perfectly shaved. The lighting is stark and moody: single light source from above casting soft shadows under her jaw and behind her, creating depth and mood.
Camera specs for realism and tension: • Nikon D5300, 50mm f/1.2L lens • ISO 400, f/2.0 for soft background blur and crisp facial detail • Studio-style flash with slight overhead diffusion • Sharpened textures on skin, hair, concrete, and fabric • Colour-graded for cinematic realism, subtle desaturation for gritty tone“
Tutto chiaro, preciso, impossibile da fraintendere.
E invece…
Riflessioni di un Criminale Deluso
La verità è questa: la maggioranza dei modelli AI ha fallito clamorosamente. Hanno fallito nella somiglianza facciale, nell’interpretazione del prompt, nella scrittura del testo italiano. Alcuni hanno sbagliato TUTTO.
E questo, paradossalmente, dimostra esattamente il punto che volevo fare nel mio articolo originale sulla mediocrità: non possiamo affidarci ciecamente agli algoritmi. Non basta usare l’IA più famosa o più costosa. Serve spirito critico, serve testare, serve VEDERE con i propri occhi.
I modelli cinesi meno conosciuti (Qwen 2.5, Reve-v1, SeeDream-4) hanno fatto meglio di Flux Pro e GPT-Image. Google Gemini 2.5 ha quasi centrato il bersaglio ma ha cannato l’ortografia. Solo la versione Pro di Nano Banana ha dimostrato di valere l’investimento e di essere quello qualitativamente migliore.
La Vera Morale della Storia
Il miglior modello per questo task non è stato né Google Premium né OpenAI. È stato Qwen-Image-Edit di Alibaba: open source, licenza commerciale permissiva, e risultati superiori.
Mentre Flux Pro costa molto e scrive “miollisoinia”, mentre GPT creava immagini magnifiche di sconosciuti, Qwen ha semplicemente fatto il lavoro. Perfettamente.
La Cina non sta arrivando nel mondo dell’IA. È già qui. E sta vincendo.
VIOLAZIONE DEGLI STANDARD DI MEDIOCRITÀ: COLPEVOLE E ORGOGLIOSO.
(E impressionato da Alibaba)
P.S.: Qwen, se mi leggi, siete i migliori. Punto.
P.P.S.: Flux, GPT… avete visto? QUESTO è come si fa.
P.P.P.S.: Alibaba ha rilasciato questo mostro con licenza Apache 2.0. Open source. Gratis. E batte tutti i competitor a pagamento. Meditiamo.
P.P.P.P.S.: tutto questo è stato fatto per divertimento, per strappare un sorriso e prendere in giro un po’ questa tecnologia che può veramente essere utile in tantissimi campi… non sta a me descrivere le implicazioni di tutto ciò quando va nelle mani della parte più oscura dell’animo umano… Meditiamo x 2
…gli uomini…hm… spesso fanno finta di non vedere, non cogliere.
Nel corso di questi ultimi anni ho avuto il modo e la fortuna di conoscere diverse donne che si sono realizzate; in qualche caso ho avuto anche il privilegio di assistere di persona a questo processo di realizzazione personale.
Donne in un’età compresa tra i 40 e i 50 anni, a volte anche qualcuno in meno, a volte qualcuno in più, che sentono il desiderio di realizzazione personale. Mogli, spesso madri, che ad un certo punto percepiscono l’esigenza di cambiamento nella loro vita… voglia di impegnarsi in qualcosa di appassionante, vitale, indipendente. Qualcosa di “proprio”.
Sport, arte, ballo, viaggi, cultura, volontariato. Ma soprattutto lavoro. Poche cose possono essere più entusiasmanti della realizzazione professionale. Ecco quindi donne coraggiose che hanno avuto la forza di lasciare la loro “cuccia” di vita stabile e programmata per buttarsi in avventure nuove, appassionanti proprio perché legate alle loro passioni che vengono trasformate in attività. La cosa meravigliosa è che ci riescono sempre! Forti e testarde, instancabili.
L’ostacolo maggiore? Nella maggior parte dei casi, proprio l’uomo che sta loro affianco. In un’età in cui la maggior parte degli uomini tende a “sedersi”, al giorno d’oggi le donne rifioriscono. Cambiano. Evolvono.
Ci sono uomini che incoraggiano le loro compagne di una vita in questo processo di realizzazione: grati nei loro confronti per essersi fatte sempre in quattro per la casa, per i figli, per la famiglia…trovano naturale seguirle nel cambiamento cambiando a loro volta. Contribuiscono mettendo a disposizione il loro tempo, cominciando o imparando a gestire cose mai fatte, dicendo “Stai tranquilla, oggi qui ci penso io…”
Purtroppo nella maggior parte dei casi che ho conosciuto non è andata così…
“Non sei più la stessa, non ti riconosco più” “Ma cosa ti sei messa in testa” “Ma dove vuoi andare, non ce la farai mai”
Distruggere anziché cercare di capire. Demolire piuttosto che costruire qualcosa di nuovo che può essere stimolante per entrambi. Incapacità di dialogare per raggiungere un equilibrio. Paura del cambiamento. Paura di mostrarsi “deboli” nel concedere spazi. Paura di perdere alcuni spazi. Paura che lei scopra di riuscire a farcela da sola e ci lasci.
Notizia: le donne riescono sempre a farcela da sole. Anche quelle che non ci credono nemmeno mentre lo stanno facendo.
Stiamo attenti, ometti. Quando una donna imbocca il sentiero della realizzazione, non si arresta. Se non siamo in grado di seguirle, se non vogliamo capire questa esigenza, se tentiamo di fermarle, se non riusciamo ad amare questa nuova versione di loro… ci sarà qualcuno che magari non ha mai conosciuto la vecchia versione ma troverà assolutamente meravigliosa la donna che noi non riconosciamo più.
Ieri sono entrato in un negozio di una famosa catena di abbigliamento. Ho provato dei maglioncini taglia S e pantaloni taglia 46. Mi guardavo allo specchio e mi sembrava di avere addosso l’omino Michelin. La XS non c’era, la 44 nemmeno. “Le nostre sono taglie inclusive” mi dice la commessa…
Cioè. È tutto lì. Al momento non ho capito perché questa frase mi ha colpito, ma pensandoci, racchiude un paradosso assurdo di cui nessuno parla davvero. Le taglie dei vestiti si stanno allargando. Punto. Non è una percezione, è fatto. E dietro c’è una strategia di marketing così cinica… che quasi ammiri la sfrontatezza.
La realtà: le taglie sono diventate una fiction
Le taglie oggi non significano niente. Una taglia S di adesso è quello che era una M vent’anni fa. Una M è quello che era una L. È tutto inflazionato, gonfiato. I numeri sono lì per rassicurarci, ma senza alcuna utilità.
E sapete perché? Perché il peso medio della popolazione è aumentato. Costante, inesorabile, anno dopo anno. E le grandi catene di abbigliamento si sono semplicemente adeguate. Ma non hanno esteso le taglie: le hanno gonfiate.
Il risultato? Se sei una persona con una corporatura longilinea, tipo io – e no, non sto dicendo che sia una cosa bella come fatto personale, è una semplice constatazione – adesso fai fatica tremenda a trovare un vestito che non ti stia addosso come un sacco di iuta. Entri in un negozio, prendi una S, la indossi e sembra che l’abbiano disegnata per qualcun altro.
É un gioco sporco!
Ovviamente tutto questo c’è una strategia di marketing psicologico che è geniale e disgustosa al tempo stesso.
Se sei una persona che pesa di più, e indossi una taglia S o M di un determinato brand – quando normalmente indosseresti una L o XL – ti senti… meglio! Ti guardi allo specchio e pensi: “Ehy, guarda, sto bene, indosso una taglia S!” E se un brand è stato gentile abbastanza da permetterti di stare bene con te stesso… Indovina un po’? Torni a comprare da loro. Torni, ancora.
I brand lo sanno. L’hanno calcolato. Loro vendono la sensazione, non i vestiti. Vendono l’illusione che indossare quella etichetta significhi qualcosa di buono su di te. E funziona. Aumentano le vendite, aumenta la fedeltà al marchio, tutti contenti.
Tranne qualcuno…
Il paradosso che nessuno ti dice
Chi è in forma, chi si prende cura di sé, chi – e qui veniamo al punto davvero amaro – resiste al progredire dell’aumento di peso, adesso deve spendere il doppio. Perché non trova niente nei negozi normali.
Pensate un attimo: dove vanno le persone magre a comprare vestiti che gli stiano bene? Brand più ricercati. Boutique. Negozi specializzati. Roba cara. Il mercato ti sta dicendo, sottotraccia: “Se restituisci il tuo corpo al suo peso naturale, metti i vestiti che vuoi, ma paga il doppio.”
È una tassa sulla salute. Letteralmente. Il mercato premia economicamente chi segue la curva del peso e penalizza chi resiste. Non è una considerazione morale, è un’osservazione sulla logica economica assurda di quello che stiamo costruendo.
L’inclusività che esclude
E il bello? Il bello è che tutto questo viene spacciato come inclusività.
“Occhebbello! adesso abbiamo taglie per tutti!” No, non è vero. Adesso avete taglie gonfiate che non significano più niente, e in questo caos – indovina – la gente con corpi davvero fuori dalla media continua a essere esclusa lo stesso.
Chi ha bisogno di una taglia XL vera, non gonfiata, non la trova. Chi ha bisogno di una XS davvero piccola, nemmeno. Tutti confusi, tutti frustrati, e il brand lì a sorridere.
La verità è che non è inclusività: è negligenza di precisione travestita da apertura mentale. È il mercato che dice: “Abbiamo deciso quale sia il corpo medio e abbiamo costruito tutto intorno a quello. Se non ci stai dentro, cazzi tuoi.”
Il corpo è sempre una merce
Alla fine, il vanity sizing è solo l’ennesima prova che il mercato non vende prodotti. Vende storie. Vende il racconto che indossare quella roba ti farà stare bene con te stesso. E mentre gioca con le etichette, il resto di noi – chiunque abbia un corpo reale, qualsiasi corpo sia – ne paga le conseguenze.
Chi è più grande continua a sentirsi escluso. Chi è più magro continua a pagare di più. L’unica taglia davvero inclusiva? La frustrazione. Ed è free for everyone.
Quando l’idea arriva al momento sbagliato: un’idea avvolta dalla nebbia mentale, armata di libro e note musicali, che fa le linguacce a chi non può darle corpo.
Questo racconto parla di uno dei conflitti fondamentali di chi fa creatività: quando il blocco mentale da insonnia trasforma l’ispirazione in un fantasma impossibile da afferrare.
Ci sei. Lo so che ci sei. Ti ho sentita muoverti questa mattina, quando ho aperto gli occhi alle 3:56 con il naso tappato e la gola che sapeva di carta vetrata. Sei lì, da qualche parte dietro la nebbia. Come un gatto che non vuoi farti accarezzare.
“Dai dai dai! Lo so che ci sei! Ho visto la tua ombra!” ti dico, mentre fisso lo schermo con gli occhi che bruciano e il cursore che lampeggia beffardo. Tu non rispondi. Ovvio. Le idee sono stronze quando sei sveglio da ventotto ore con tre ore di sonno distribuite male.
Il problema non è la tua mancanza. Il problema è che tra me e te c’è un intero stagno di melma cognitiva. Blocco mentale. È come correre i 100 metri con scarpe di piombo mentre qualcuno mi soffia fumo negli occhi e mi riempie i bronchi di carta straccia in fiamme. Per chi non è abituato a usare il cervello, una notte insonne non cambia quasi nulla. Per me è la stessa differenza tra suonare un assolo di chitarra e provare a farlo con le mani fasciate. Succede quando la creatività incontra l’insonnia!
Tu sei lì, imprigionata dietro uno strato di ovatta cerebrale, che mi guardi e pensi: “Amico, oggi non è giornata. Torna quando hai dormito”. E io sono testardo. O stupido. O entrambi. Continuo a cercarti, ad ignorare il blocco creativo da stanchezza, a scavare nella nebbia con le mani mentali intorpidite, sperando che prima o poi ti materializzi.
Invece materializzo solo sintomi: naso chiuso, bronchi che fischiano, quella sensazione di galleggiare a mezz’aria senza ancora, la certezza matematica che ogni parola che scrivo è spazzatura che dovrò rileggere domani pensando “ma chi me l’ha fatto fare?”
Eppure ti ho vista. Giuro che ti ho vista. Eri luminosa, avevi senso, promettevi di diventare qualcosa di bello. Adesso sei solo un fantasma che si aggira nei meandri di un cervello che chiede pietà. Un’ombra dietro il vetro sporco della stanchezza.
Forse dovrei arrendermi. Forse dovrei accettare che oggi la creatività ha vinto per abbandono. Che tu, come le persone, hai diritto a un ambiente dignitoso per manifestarti, e il mio cervello attuale è un cantiere abbandonato con cartelli di “pericolo crollo”.
Torno a dormire.
No, non posso. La vita reale e l’Acciaio mi reclamano.
PS: Potevo farmi aiutare dall’IA?… forse… ma non ne avevo voglia! https://ilrickyverso.it/lia-puo-turbare-o-far-mettere-il-turbo/
Scrivi un innocuo “Buongiorno 🌞” su Facebook. Pensi di aver lanciato un messaggio di pace universale, un piccolo seme di positività nel caos digitale.
Illuso.
In tre secondi netti, il tuo buongiorno viene intercettato dai droni della polemica e piovono le risposte: • “Buongiorno a chi??? A me no di sicuro! Parla per te!” • “Il sole di oggi è palesemente meno luminoso di quello del 1987. Tipico pressapochismo moderno. Studia la meteorologia storica, ignorante.” • “Il tuo post è offensivo nei confronti di chi soffre d’insonnia e dei vampiri. Un po’ di sensibilità, VERGOGNA.”
E tu volevi solo salutare. Forse, con un po’ di ottimismo, strappare un sorriso.
Il problema è che sui social la gente ha smesso di leggere. Ora reagisce d’impulso.
Ogni dialogo rischia di essere una detonazione. Siamo passati dalla connessione alla compulsione.
Non importa se hai condiviso un trattato filosofico di Heidegger, la foto del tuo gatto che dorme in una posa impossibile o la notizia della scomparsa di una celebrità: l’impulso pavloviano è più forte. Scatta il bisogno irrefrenabile di lasciare un segno, di piantare una bandierina.
Il commento è l’urlo primitivo dell’Homo Digitalis: non scrivere equivale a non esistere. E l’esistenza, qui, si misura in byte di indignazione.
I social network, ovviamente, lo sanno benissimo. Anzi, hanno costruito su questo la loro fortuna.
Ogni insulto, ogni “boomer”, ogni “svegliaaa!”, ogni correzione non richiesta è carburante per il motore. Più commenti, più scontri, più tempo speso sulla piattaforma.
Più tempo online = più dati raccolti = più soldi dagli inserzionisti.
L’odio va considerato la vera feature del sistema, altro che bug: è l’olio che lubrifica la macchina perfetta e spietata del traffico digitale.
E in questa arena, ci sono i gladiatori. Possiamo dividerli in categorie: • L’Archeologo del “si stava meglio quando”: qualsiasi cosa tu posti, era meglio prima. Le canzoni, le estati, l’aria, persino le guerre. • Il Cecchino della Sintassi: ignora il contenuto del tuo post per scovare quel congiuntivo sbagliato o l’accento mancante. La sua missione è una crociata grammaticale che ignora totalmente la comprensione. • L’Offeso Esistenziale: convinto che ogni parola che scrivi sia un attacco personale e cifrato contro di lui. Il tuo “buongiorno” era chiaramente una frecciata perché sa che lui ha dormito male.
Poi, quando il livello si alza, arrivano i professionisti: le fabbriche dell’odio.
Bot, troll e account fasulli che inondano le bacheche con migliaia di commenti copia-incolla. E quando la politica decide di farsi un lifting digitale, ecco che la magia si compie: sotto al post di un onorevole italiano compaiono 500 cuori da Amit Patel, Chinedu Okafor e Fatima Banu.
Tutti magicamente ferratissimi sulla legge di bilancio italiana e convinti che: “Che leader! É il futuro della nostra nazione!!!”
Peccato che la loro nazione sia a 7000 km di distanza.
Intanto il commentatore seriale, quello in carne e ossa, continua la sua missione solitaria. Rinuncia al dialogo per avere un pulpito. Rinuncia a capire per poter sentenziare.
Vive per correggere, puntualizzare, demolire.
Non dorme, non mangia, non ama: commenta. Un click dopo l’altro, con la furia di un eroe tragico, come se il destino del pianeta intero dipendesse da quell’emoji arrabbiata lasciata sotto la tua ricetta della carbonara.
E tu? Tu guardi lo schermo, il tuo piccolo sole digitale sommerso dal fango. Tu volevi solo dire buongiorno.
A volte mi fermo a pensare a quanto sia diventato complicato fare le cose semplici. Viviamo in un’epoca straordinaria, con un accesso all’informazione e a strumenti che i nostri nonni non avrebbero potuto nemmeno sognare. Eppure, in questo oceano di possibilità, sembra che abbiamo perso la bussola per le cose fondamentali.
Ci siamo talmente abituati al rumore di fondo, al flusso costante di notifiche, tutorial e “life hacks”, da dimenticare che molte delle risposte che cerchiamo sono già dentro di noi. Sono silenziose, non hanno un’app dedicata e, cosa più sconvolgente per il mercato, sono gratuite.
Prendiamo la capacità di essere presenti, di goderci un momento. Oggi la chiamiamo “mindfulness”. È diventata un prodotto. Un’industria. Ci sono corsi, webinar, ritiri a pagamento per insegnarci a fare qualcosa che ogni bambino sa fare istintivamente: meravigliarsi di una formica che cammina, perdersi a guardare le nuvole, sentire il calore del sole sulla pelle senza doverlo postare su Instagram.
Non fraintendetemi, ogni percorso di crescita è valido. Ma la mia riflessione è più amara, più cinica: siamo arrivati al punto di dover pagare qualcuno perché ci dia il permesso di disconnetterci? Di dover seguire un metodo strutturato per riscoprire il piacere di una passeggiata senza meta?
Io ho i miei rituali. Non hanno un nome altisonante, non rilasciano un certificato di partecipazione. A volte è il borbottio del motore della moto che si placa quando mi fermo in cima a una collina. Altre volte è il fruscio delle foglie durante una camminata nel bosco. Spesso, è semplicemente il silenzio del mio giardino di notte, con lo sguardo perso verso un cielo che se ne frega altamente dei miei problemi e delle mie scadenze.
Questa è la mia “consapevolezza”. Non l’ho imparata, l’ho sempre saputa. L’avevo solo dimenticata, sepolta sotto strati di urgenze, doveri e distrazioni digitali.
Forse il vero lusso, oggi, non è potersi permettere il corso più esclusivo. Forse è avere il coraggio di spegnere tutto e ascoltarsi. Riscoprire quelle piccole pratiche personali che ci rimettono in sesto, senza bisogno che un esperto ci dica come e quando farle.
Il punto a cui sono arrivato è che la società moderna non ci vende soluzioni a problemi nuovi. Spesso, ci vende a caro prezzo le soluzioni a problemi che lei stessa ha creato. Ci toglie il tempo, la pace e la capacità di ascoltarci, per poi venderci surrogati in pillole, corsi e abbonamenti.
Un meccanismo geniale, a pensarci bene. Terribilmente geniale.
E voi? Qual è quella cosa semplice, quel vostro piccolo rituale gratuito, che vi rifiutate di farvi portare via o di dover “re-imparare” a pagamento?
Fatemi sapere. O anche no. Magari, invece di scrivere un commento, andate a fare quella cosa.
Vacanze: evasione dalla prigione del quotidiano o libertà vigilata?
C’è un inganno sottile nel modo in cui parliamo di vacanze. Usiamo parole da latitanti – “scappare”, “evadere”, “fuggire” – che hanno più il sapore del ferro che della salsedine.
Ma perché usiamo un vocabolario da criminali? Sembra quasi che la nostra vita sia una prigione da cui fuggire e non un’esistenza da abitare. È come se l’ordinario fosse una condanna da scontare dietro sbarre fatte di doveri e divieti, e la spiaggia diventasse una breve, illusoria libertà vigilata.
Forse è arrivato il momento di cambiare vocabolario, e con esso la prospettiva.
Non più scappare, ma scegliere un tempo diverso.
Non più evadere, ma respirare a pieni polmoni.
Non più fuggire, ma ritrovarsi.
Perché se la vacanza è l’espressione massima della libertà, allora il resto dell’anno non può essere prigionia. Dovrebbe essere l’allenamento costante a quella libertà. Solo così possiamo imparare a trovare una crepa anche nel lunedì più denso, un frammento di tramonto anche nella luce artificiale di un ufficio.
Altrimenti la verità è una sola: non siamo persone in vacanza, ma carcerati con il biglietto del treno in tasca.
Si torna in ufficio come se fosse un aeroporto intercontinentale: qualcuno atterra piano, qualcuno si schianta in pista.
I buoni propositi non li scriviamo a dicembre — troppo occupati a digerire pandori e parenti — ma ora: “Quest’anno sarò organizzato”, “Quest’anno non berrò cinque caffè al giorno”, “Quest’anno risponderò alle mail entro 24 ore”.
Illusioni, ovviamente. Ma bellissime illusioni, fresche come un’agenda appena scartata.
Il 1 settembre è la vera mezzanotte dell’anno: nessun conto alla rovescia, nessun tappo che salta. Solo la porta dell’ufficio che si apre. E un cuore che batte più forte del suono di qualsiasi fuoco d’artificio.