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  • Tu non hai figli, cosa vuoi saperne (e altre frasi che proteggono solo chi le dice)

    Tu non hai figli, cosa vuoi saperne (e altre frasi che proteggono solo chi le dice)

    Disegno a china bianco e nero di un bambino triste isolato sotto una campana di vetro con lo smartphone in mano, mentre fuori altri bambini giocano a pallone, si sporcano e vivono esperienze reali.
    Bambino sotto una campana di vetro, mentre fuori c’è la vita vera.

    C’è una frase che funziona come un lucchetto.
    La senti e capisci subito che non è un dialogo: è una serranda abbassata con la scusa della prudenza.

    “Tu non hai figli, cosa vuoi saperne.”

    È vero: non ho figli.
    La vita non mi ha fatto questo regalo. Ma mi ha regalato una posizione privilegiata da “amico adulto” per molti ragazzi e ragazze. Quello con cui è più facile confidarsi proprio perché non è né un genitore né un professore, ma con cui si condivide una passione per qualcosa.
    Ed ho occhi per vedere, orecchie per sentire e una cosa che ultimamente sembra dare fastidio: una testa allenata a pensare. PENSARE, non “credere di sapere”…

    E quando usi davvero la ragione, succede una cosa strana: riesci a guardare le cose senza quell’impasto emotivo che rende tutto intoccabile. Non sei “contro” i genitori. Non sei “contro” la paura.
    Sei contro il fatto che la paura si travesta da amore e passi inosservata.

    Perché sì: proteggere è un verbo nobile.
    Ma c’è un punto—sottile, invisibile—oltre il quale proteggere diventa negare.
    Negare a un figlio di vivere.
    Di rischiare.
    Di sbagliare.
    Di imparare dai propri errori.
    E soprattutto: di appassionarsi a qualcosa.

    Che poi è il grande paradosso.
    In teoria lo vuoi al sicuro.
    In pratica lo stai lasciando senza benzina interiore.

    Se un ragazzo non può sporcarsi le mani con qualcosa che lo accende (musica, sport, amicizie, una sfida vera, una passione che lo prenda a schiaffi e poi lo rimetta in piedi), prima o poi cercherà una scintilla altrove.
    E verrà il giorno in cui avrà bisogno di sentirsi vivo: di trasgredire, di mettersi in gioco, di dimostrarsi di valere qualcosa.
    E lì la vita NON CHIEDERÀ a te il permesso.

    Perché qualcuno, prima o poi, gli proporrà “la cosa sbagliata”.

    E se tuo figlio non ha mai avuto spazio per sbagliare in piccolo—senza essere umiliato, senza essere salvato sempre, senza essere assolto a prescindere—rischia di imparare a sbagliare direttamente in grande.
    Sotto la campana di vetro si cresce puliti.
    Ma non si cresce forti.

    E poi c’è un’altra cosa che fa danni, spesso insieme alla campana: lo scudo.
    Quello del “mio figlio non può avere torto”.
    Quello del “è stato provocato”.
    Quello del “non capite com’è fatto”.
    Capisco eccome.
    È fatto come tutti: confuso, fragile, potentissimo.
    E ha bisogno di due cose che oggi sembrano quasi eretiche:

    conseguenze, quando sbaglia davvero

    fiducia, quando prova davvero

    Non è cattiveria. È educazione sentimentale alla realtà.
    Perché la realtà non è gentile.
    Ma può diventare bellissima, se uno impara a starci dentro senza implodere al primo urto.
    Quante volte avrei voluto dirlo, questo, a quei genitori che tengono i figli sotto una campana di vetro: che li difendono anche quando hanno torto marcio, che li proteggono da tutto, persino dal peso sano di una responsabilità.

    E no: non sto parlando del “lasciamoli allo sbando”.
    Sto parlando del contrario: guidarli mentre rischiano.
    Stare accanto senza sostituirsi.
    Essere rete, non gabbia.
    Perché amare non è impedire la caduta.
    Amare è insegnare come ci si rialza.