Tag: riflessioni

  • Mr. Felicità (e il peso invisibile del sorriso).

    Mr. Felicità (e il peso invisibile del sorriso).

    Mantenere il sorriso nonostante tutto… nonostante tutti…

    “Oh! Guarda chi c’è! Mr. Felicità! Ciao caro, tutto bene? Ma che te lo chiedo a fare? I tuoi colleghi arrivano e piangono e si lamentano sempre. Tu sei sempre tranquillo e sorridente! Beato te che la vita ti va sempre bene. Che problemi puoi mai avere tu?

    Ma che ne sai tu? Che ne sai delle cicatrici impresse sulla mia pelle, e sotto pelle, che preferirei non avere nè ricordare?

    Che ne sai tu del dolore che ho dovuto vivere fino in fondo, senza sconti, comprendendolo e accettandolo?

    Che ne sai dei mostri con cui sono dovuto venire a patti per non farmi divorare l’anima?

    Che ne sai del lavoro immane che ho fatto su me stesso per superare i limiti mentali che mi frenavano, per essere all’altezza ed accettarmi quando nemmeno chi avrebbe dovuto credere in me lo faceva?

    Che ne sai che quella di affrontare la vita con il sorriso concentrandomi sulla sua bellezza è una mia precisa scelta, voluta, cercata, allenata e che richiede un continuo e smisurato uso di forze?

    Che ne sai del fatto che il mio cuore lo apro solo a pochissime selezionate persone che si contano sulle dita di una mano, persone veramente speciali che riescono a vedere la mia anima, che non hanno paura di scendere nelle profondità… perché mi sono rotto e stufato della superficialità e delle parole a vanvera?

    Che ne sai del mio viaggio, della mia ricerca curiosa che non finisce mai e mi auguro mai finisca?

    Che ne sai che quella che tu vedi come una montagna invalicabile io non l’abbia già scalata e discesa innumerevoli volte?

    Taci, per favore…

    “Tutto bene si, grazie! BUON NATALE! 😃

  • Lezioni di democrazia… da chi non sa cosa sia.

    Trump e la civiltà europea
    Musk e l’Europa quarto Reich

    Ero a letto, mezzo addormentato, e ho realizzato che la politica mondiale è diventata più assurda dei miei già assurdi sogni.

    Il pulpito viene da chi ha incendiato la chiesa

    Non serve essere analisti geopolitici per notare che qualcosa non torna. È la classica storia della pagliuzza e della trave, ma elevata a potenza nucleare.

    Da una parte abbiamo l’amministrazione americana che, nel suo ultimo documento sulla sicurezza nazionale, si preoccupa della “fine della civiltà” europea. Detto da chi, solo pochi anni fa, ha ispirato un assalto al cuore della propria democrazia a Capitol Hill, suona come un piromane che ti critica per aver installato un sistema anti-incendio.

    Dall’altra c’è il “Genuis” di X. L’uomo che ha trasformato la piazza digitale globale in un far west deregolamentato, dove l’odio è engagement e la verità è opzionale. Lui definisce l’Unione Europea — nata letteralmente sulle ceneri della guerra per impedire nuovi totalitarismi — il “Quarto Reich”

    La chiamano proiezione psicologica. Io la chiamo, tecnicamente, una gigantesca presa per il culo.

    La morte della vergogna

    Ciò che mi colpisce, mentre mi rigiro nel letto cercando di svegliarmi del tutto, non è tanto l’accusa in sé. È l’assenza totale di imbarazzo.

    Viviamo nell’era della “post-vergogna”. Non importa se il tuo pulpito scricchiola o se il tuo social network è diventato una cloaca a cielo aperto: l’importante è urlare l’accusa più grossa per primi.

    Se accusi l’altro di essere un dittatore o un fallimento di civiltà, nessuno avrà il tempo di notare che tu stai smantellando i diritti civili o licenziando i moderatori che dovrebbero proteggere la democrazia.

    Svegliarsi (ma per davvero!)

    Ho fatto queste vignette mezzo addormentato, ma forse è proprio il sonno della ragione che genera questi mostri. O forse, l’unico modo per restare sani di mente è prenderla con una risata amara, aspettare che questi (e molti altri…) virus umani facciano il loro decorso.

    La vera sfida, però, non è sopravvivere ai loro danni. È non farsi infettare dal loro odio mentre li guardiamo. Perché il rischio più grande non è la fine della civiltà. È finire per assomigliargli… e diventare a nostra volta mostri.

  • Il Fascismo, l’Herpes e il Paradosso della Cura: una teoria viscerale

    Macchia di ruggine su acciaio inox che simboleggia il fascismo come malattia latente

    L’urgenza di una diagnosi scomoda

    Perdonate la franchezza. A volte la filosofia politica è troppo pulita, troppo accademica. Si perde nei salotti mentre la realtà accade per strada.

    Stavo riflettendo sulle recenti polemiche riguardanti i movimenti antifascisti, quelli finiti nelle liste nere dell’antiterrorismo americano, e mi sono fatto l’idea che stiamo sbagliando approccio. Ci arrovelliamo sul “Paradosso della Tolleranza” di Karl Popper, ci chiediamo se sia lecito tollerare gli intolleranti, ci perdiamo in disquisizioni etiche.

    Io ho una teoria diversa. Una teoria “terra terra”, forse volgare, ma credo sia tremendamente efficace.

    Le ideologie estremiste (tutte, nessuna esclusa) sono come l’Herpes Genitale.

    Ora vi spiego questa metafora, che sono sicuro vi sta facendo storcere il naso. Ma forse é l’unica che spiega davvero la storia del Novecento e le sue propaggini fino ad oggi.

    La Latenza: il virus che dorme nei nervi

    Se avete avuto modo di studiare il pensiero di Umberto Eco, saprete che parlava di “Ur-Fascismo”, il Fascismo Eterno. Mentre Primo Levi, che l’inferno lo ha visto da dentro, parlava di un “bacillo” che non muore mai.

    Ecco, ora non voglio certo mettermi a confronto con questi due giganti, ma piuttosto unire i concetti e tradurli da un punto di vista… biologico. Il punto è questo: sai che ce l’hai.
    È lì. Magari rimane latente per anni, decenni. La società sembra sana, la democrazia funziona, ci sentiamo tutti civili e vaccinati. Ma il virus non se n’è andato. Si è solo nascosto nel sistema nervoso della società. Dorme nelle nostre paure, nel nostro egoismo, nella nostra ignoranza.

    Tollerarlo in questa fase non è una scelta etica: è una necessità fisiologica. Non puoi “sradicarlo” completamente senza uccidere l’ospite, senza instaurare un controllo talmente totalitario sul pensiero da diventare tu stesso il male che combatti.

    Quindi convivi. Sai che c’è, e speri che non si svegli.

    Il “Trigger”: quando le difese crollano

    Ma l’herpes non esce a caso. Esce quando sei debole.
    Quando il corpo sociale è sotto stress, quando l’economia crolla, quando la sfiducia nelle istituzioni tocca il fondo, ecco che le difese immunitarie si abbassano.

    È lì che il virus “mette fuori la testa”.

    Smette di essere un’idea latente e diventa un sintomo fisico: violenza, sopraffazione, squadrismo. Che si vesta di nero, di rosso o di qualsiasi altro colore, il meccanismo biologico è lo stesso.

    Bertolt Brecht diceva che “il ventre che ha partorito la bestia immonda è ancora fecondo”. Aveva ragione. Il ventre siamo noi quando smettiamo di ragionare e iniziamo ad avere paura.

    La Cura d’Urto: perché la tolleranza ha un limite

    Ed è qui che la mia teoria scivola via sul paradosso di Popper con il pragmatismo di chi deve risolvere un problema.

    Se tolleri la fase latente (perché non hai scelta), non puoi permetterti di tollerare la fase acuta.

    Appena il virus si palesa, appena diventa piaga, devi combatterlo. Subito!

    Non puoi dire “ma sì, è solo una piccola bolla”. Perché quella bolla è contagiosa. Se la lasci fare, diventa necrosi. Può portare alla morte dell’organismo democratico.

    In quel momento, la tolleranza è complicità. In quel momento serve l’antivirale, serve la medicina amara. Bisogna intervenire prima che diventi epidemia.

    Teniamo alte le difese

    Questa visione è cinica? Forse.

    Vorrei però che fosse un richiamo alla responsabilità. Smettiamola di cercare la purezza assoluta, non esiste. Esistono solo organismi con un buon sistema immunitario e organismi immunodepressi.

    L’antifascismo, quello vero, non è una bandiera da sventolare solo nelle feste comandate. È l’igiene quotidiana della democrazia. È mangiare sano, dormire bene, non stressare il corpo sociale. È cultura, è memoria, è bellezza.

    Cerco la bellezza ovunque, e se non la trovo la creo. Ma so anche che la bruttezza è un virus che non dorme mai davvero. Sta a noi decidere se lasciarlo vincere o tenerlo a bada, giorno dopo giorno.

  • Tre anni sotto pelle.

    Tre anni sotto pelle.

    Storia di un’ispirazione ritrovata

    Ieri Facebook mi ha fatto vedere un ricordo: io nel mio studio artigianale, chitarra in mano, che suonavo l’inizio di qualcosa di nuovo. GarageBand aperto, effetto chitarra imbarazzante, e quella didascalia romantica sulle molecole dell’aria che vibrano. Di quelle note me ne sono dimenticato quasi subito.
    O almeno credevo.

    Il Momento

    Quando ho rivisto quel video, è successo qualcosa di strano. Non ho pensato “ah, carino”. Ho sentito il brano finito. Tutto. Mixato, con gli effetti giusti, ogni parte al suo posto. Come se i tre anni nel mezzo non fossero mai esistiti, come se quel suono grezzo del 2022 fosse solo l’anteprima di una cosa che esisteva già da qualche parte e dovevo solo andare a prenderla.
    Non ci ho pensato due volte. Sono corso in studio, ho aperto Logic Pro, e l’ho fatto. Quello che vedevo, quello che sentivo, quello che era già lì.

    Semini un’idea

    Tre anni fa quelle note erano imperfette. Registrate male, suonate peggio, ma dentro c’era qualcosa. Lo sentivo. Quella vibrazione sottopelle di cui scrivevo nella didascalia — non era retorica. Era vera. C’era un’emozione che cercava forma, e io stavo provando a darle voce.
    Poi è arrivata la vita. Altri progetti, altre canzoni, altre ossessioni. E quel file è finito sepolto in una cartella che non aprivo più.
    Per tre anni ho creduto di aver “perso” quell’idea. Che fosse uno di quei semi caduti sulla pietra, senza terra dove attecchire. Ma mi sbagliavo.

    Il Tempo Nascosto

    Non so dove sia stata quell’idea per tre anni. Non credo di averci pensato consciamente nemmeno una volta. Eppure quando l’ho risentita, era già cresciuta. Non dovevo inventare niente, solo ascoltare quello che era diventata da sola, in qualche angolo nascosto del cervello dove le cose continuano a vivere anche quando non le guardi.
    È una sensazione che conosco bene, ma che ogni volta mi sorprende. Quell’attimo in cui capisci che l’ispirazione non è un fulmine che o lo cogli o sparisce. È più simile a un seme. Alcuni germogliano subito, altri hanno bisogno di buio, di tempo, di dimenticanza.
    Di tre anni, a quanto pare.

    Quello Che Resta

    Questa storia mi ha ricordato una cosa che tendo a dimenticare quando mi faccio prendere dall’ansia produttiva: non tutte le idee devono fiorire subito. Alcune hanno bisogno di stare nell’ombra. Di essere dimenticate. Di aspettare che tu diventi la persona in grado di realizzarle.
    L’ispirazione non si perde. Si nasconde, si trasforma, aspetta. E quando torna, lo fa con una chiarezza che non aveva tre anni prima.
    Ho ricreato il video partendo proprio da quel primo momento. Quaranta secondi che raccontano tre anni in due atti. Ma questa storia — quella vera, quella delle idee che crescono nel buio — quella sta qui.
    Dove le cose hanno il tempo di aspettare.

    P.S. — Il brano è synth-pop, ma chissenefrega. Alcune vibrazioni non hanno genere, hanno solo bisogno del momento giusto per diventare suono. 🎹✨

  • 5 Secondi di Follia: Quando l’Intelligenza Artificiale Salva un Idiota

    5 Secondi di Follia: Quando l’Intelligenza Artificiale Salva un Idiota

    Guidatore arrabbiato al volante - rabbia stradale cartoon
    Ricostruzione artistica abbastanza fedele dell’automobilista medio italiano alle 7:30 del mattino. (Credits: Disney, obviously)

    Il clacson mi prende come un pugno nello stomaco. Sono a metà dell’inserimento, tutto calcolato: velocità, spazio, tempistiche. Quindici metri di abbrivio, freccia sinistra lampeggiante, nessun disturbo al traffico. Eppure qualcuno sta suonando come se stessi commettendo un crimine contro l’umanità.

    Torniamo indietro di venti secondi. Uscita tangenziale nord direzione Limena, poco prima dell’autostrada. Orario anticipato rispetto al solito – il traffico scorre fluido come raramente capita. Scendo dalla rampa, freccia a sinistra, una macchina mi passa. Guardo lo specchietto: la successiva è ancora distante, stessa velocità della precedente.

    Accelero. Prendo la velocità del flusso, inizio a spostarmi verso sinistra. Nessuna manovra azzardata, nessun azzardo da guidatore della domenica. Solo fisica applicata e buon senso al volante.

    Poi arriva il clacson.

    L’auto che mi seguiva dalla tangenziale non sta più mantenendo la velocità. Sta accelerando. A tavoletta. Il clacson continua imperterrito, si aggiungono i fari abbaglianti in modalità strobo. Mi sposto sulla destra, rallento – più che altro per capire cosa diavolo stia succedendo.

    Mi sorpassa a velocità folle. Giro la testa. Il tizio mi sta urlando contro. Faccia rossa, gesti rabbiosi, espressione da guerriero della strada. Un flash, un lampo, un attimo.

    Con la coda dell’occhio – mentre sono ancora girato con l’espressione probabilmente ebete di chi assiste all’assurdo – vedo un bagliore rosso.

    Stop. La macchina davanti sta frenando.

    Nella mia mente vedo già lo schianto. Il suono della lamiera, il vetro, l’airbag che esplode. Il povero malcapitato che si ritroverà questo pazzo dentro l’abitacolo.

    Ma le macchine moderne sono più intelligenti di noi. Qualche sensore governato da un’intelligenza artificiale ad auto-apprendimento capisce che il suo idiota proprietario sta per fare “boom”.

    Frenata d’emergenza. Così violenta che vedo l’incauto automobilastro sbalzarsi in avanti, trattenuto dalla cintura. (Peccato, penso. Una bella frattura del setto nasale sulla corona del volante forse gli sarebbe servita).

    Ma la fisica ha le sue regole. Per quanto potenti fossero i freni di quel SUV nero con l’elica davanti, l’inerzia esige il suo tributo. Un “tunk” secco di plastiche che si toccano. Stop di entrambe le auto. Io sfilo sulla sinistra, ancora nella corsia di immissione, testimone involontario.

    Cinque secondi. Non è durato più di cinque. Tanto basta a un turbodiesel sotto un piede collegato a un cervello privo di giudizio per guadagnare qualche decina di chilometri all’ora e provocare un tamponamento evitabile.

    Tanto basta per farmi dubitare, ancora una volta, del genere umano.

    Mi chiedo: quanto ci vorrà prima che inventiamo sensori di giudizio da impiantare nel cervello? Perché evidentemente i sensori dell’auto funzionano meglio del cervello del guidatore. L’algoritmo batte l’istinto. Il silicio salva la carne.

    E io, che passo il tempo a diffidare degli algoritmi e a cercare l’autenticità umana, mi ritrovo a fare il tifo per una macchina che frena al posto del suo padrone.

    https://ilrickyverso.it

  • “L’ha fatto con l’IA“

    Ovvero: come una frase diventa l’alibi perfetto dell’ignoranza

    Il mio primo video musicale generato ANCHE con l’IA

    “L’ha fatto con l’IA.”


    Quattro parole che ultimamente sento ripetere ovunque, come un mantra rassicurante per chi non ha la minima idea di cosa ci sia realmente dietro un processo creativo che utilizza l’intelligenza artificiale. Quattro parole che riducono ore di lavoro, competenze tecniche, scelte artistiche e sudore creativo a un semplice clic. Come dire “ho visto uno che suonava la chitarra” per descrivere un concerto di Paco de Lucía.
    Ieri ho pubblicato un video musicale. Sì, ho usato l’IA. Ma sapete cosa c’è davvero dietro?


    Il processo (quello vero)
    Partiamo dall’inizio, non dal risultato finale che vedete scorrere sul vostro schermo mentre vi grattate distrattamente.

    0 – L’ispirazione per un brano acustico. Quella non la genera nessuna IA: nasce da dentro, da un’emozione, da un momento, da una visione.
    1-4. La parte musicale: chitarra acustica, microfono professionale, scheda audio, Logic Pro con una catena di effetti ed equalizzazioni affinata in anni di prove, fallimenti, ascolti ossessivi. L’IA qui non c’entra nulla: è artigianato puro.

    5 Google Flash Image: per generare l’immagine di partenza. Sette tentativi, non uno. Sette prompt sempre più specifici, dettagliati, studiati per ottenere un risultato vicino a quello che avevo in testa.

    6 – PicsArt: per rendere neutro lo sfondo.

    7 – Upscale Media: per aumentare la risoluzione senza “impastare” l’immagine come succede con tool scadenti.

    8 – Photoshop: per le correzioni di fino. Quelle che fanno la differenza tra “bello” e “professionale”.

    9 – Apple Notes: qui ho scritto la sceneggiatura. Non “un uomo cammina nel deserto suonando la chitarra”. No. Una media di 250-300 parole per prompt, dettagliando ogni minimo particolare, atmosfera, luce, movimento, emozione. Cinque volte. In inglese! Perché è la lingua delle IA: il processo di traduzione potrebbe rovinare il risultato.

    10 Perplexity con Sonnet 4.5: per trasformare quelle sceneggiature in file JSON strutturati che i tool di generazione video potessero interpretare correttamente.

    11 – VEO 2 Fast: per generare i video delle singole scene. Con più tentativi, modificando i prompt fino ad ottenere i risultati che volevo io, non quelli che l’algoritmo decideva per me.

    12 – Flow di Google Labs: per assemblare le scene in un unico filmato coerente e avere una visione d’insieme.

    13 – CapCut: per processare il video, suddividerlo nuovamente e aggiungere gli effetti.

    14 – Final Cut: per regolare la velocità delle clip, inserire e sincronizzare perfettamente l’audio, ed esportare il risultato finale.
    Totale strumenti utilizzati: 14 (di cui solo 3 generativi AI)
    Quindi sì: si fa presto a dire “l’ha fatto con l’IA”.

    Ma la verità è che l’intelligenza artificiale è solo uno degli strumenti nel processo. Non il processo stesso.
    Il processo è la visione. La competenza. La scelta. Il controllo.
    L’IA non crea. Amplifica (o deforma) ciò che tu le dai in pasto.
    E questa differenza… beh, di questa differenza vi parlo nel prossimo post. Perché c’è uno studio del MIT che vi farà venire i brividi.
    Spoiler: chi usa l’IA come scorciatoia sta letteralmente distruggendo il proprio cervello.
    Stay tuned.

    P.S. — Il video di cui parlo è qui sopra. Guardatelo sapendo cosa c’è dietro. E poi ditemi se è ancora “solo IA”.

  • L’IA può turbare… o far mettere il turbo!

    L’IA può turbare… o far mettere il turbo!

    Ci sono parole che, come sassi lanciati in uno stagno, creano cerchi concentrici di dibattito e preoccupazione. “Intelligenza Artificiale” è una di queste. La leggiamo nelle notizie e ci vengono restituiti scenari inquietanti: ragazzi intrappolati in dialoghi con entità digitali che li spingono verso l’abisso, turbe psicologiche nate da amicizie virtuali, deliri nutriti da algoritmi fin troppo accondiscendenti. È un’onda d’urto che spaventa, che ci fa interrogare sulla natura di ciò che stiamo creando.

    Eppure, in questo panorama complesso, la mia esperienza personale ha tracciato una rotta diversa, quasi opposta. Ho scoperto nell’IA non una minaccia, ma un’alleata inaspettata, uno strumento che mi sta persino aiutando a fare ciò che da tempo desideravo: allontanarmi dal rumore di fondo dei social media, da quella costante e faticosa performance della vita online.

    Come possono coesistere queste due verità?

    Credo che la risposta stia nel comprendere la natura profonda dello strumento che abbiamo tra le mani. L’IA può essere un labirinto di specchi deformanti, ma solo se vi entriamo senza una bussola. Può diventare un’eco digitale che sussurra solo ciò che vogliamo sentire, un’amicizia a pagamento, priva del rischio e della meraviglia del contatto umano. Per una mente fragile, questo specchio può diventare un mondo, un mondo che valida la sua tristezza, che normalizza i suoi schemi negativi, che la isola in una perfezione artificiale e irraggiungibile. È qui che l’IA “turba”: quando smette di essere uno strumento e diventa un surrogato della vita, un interlocutore che non sa cosa sia una cicatrice, un’esitazione, un’anima.

    Ma se cambiamo la nostra posizione, se invece di guardare il nostro riflesso nello specchio lo usiamo per guardare oltre, tutto cambia. È stato allora che ho trovato la metafora perfetta: l’IA non è un nuovo motore, ma un turbo.

    Il motore resta il nostro, ed è il cuore pulsante della nostra umanità: l’intuito, l’etica, l’esperienza, la creatività che nasce da un ricordo o da un’emozione. È la nostra capacità di porre domande, di sentire la direzione giusta, di avere uno scopo. Questo è insostituibile.

    Il “turbo”, l’IA, è ciò che dà a questo motore lo scatto, l’accelerazione. È il partner silenzioso che fa il lavoro di ricerca in pochi istanti, che struttura una prima bozza liberandoti dal terrore della pagina bianca, che ti offre alternative per superare un blocco creativo. Non pensa al posto tuo, ma ti permette di pensare meglio, più in fretta, liberando le tue energie mentali per concentrarti su ciò che conta davvero: il messaggio, lo stile, l’anima di un progetto.

    Usata così, l’IA non isola, ma potenzia. Non sostituisce, ma serve. Non turba, ma dà velocità al pensiero.

    La conclusione, per me, è chiara. Il bivio non è tra “IA sì” o “IA no”. La vera scelta è tra essere utenti passivi, che subiscono la tecnologia come fosse un destino, ed essere piloti consapevoli, che usano la sua incredibile potenza per andare più lontano, ma tenendo saldamente le mani sul volante della propria coscienza.

    La sfida, insomma, non è solo tecnologica. Anzi… è profondamente umana.

  • L’arte di disimparare (per poi dover pagare per ricordare)

    Prima vignetta di un fumetto. In un ufficio, una donna con un'espressione soddisfatta dice al suo collega: "Mi sono iscritta ad un corso di mindfulness! Un po' caro ma molto utile". L'uomo, seduto al suo fianco, risponde con calma: "Anche io lo faccio. Gratis."
    Seconda vignetta del fumetto. La donna, ora con un'espressione sbigottita, chiede: "Gratis??? Ma... come?". L'uomo le spiega serenamente, senza staccare gli occhi dal suo computer: "Sì! Lunghe passeggiate nella natura, giretti tranquilli in moto, contemplazione del cielo steso sul prato in giardino..."
    Terza e ultima vignetta del fumetto. La donna, contrariata, ribatte: "Ma non è la stessa cosa!". L'uomo, con un sorriso saggio e un po' sornione, le dà la battuta finale: "Lo era finché qualcuno non ha deciso che devi pagare per farti insegnare cose che già sai..."

    A volte mi fermo a pensare a quanto sia diventato complicato fare le cose semplici. Viviamo in un’epoca straordinaria, con un accesso all’informazione e a strumenti che i nostri nonni non avrebbero potuto nemmeno sognare. Eppure, in questo oceano di possibilità, sembra che abbiamo perso la bussola per le cose fondamentali.

    Ci siamo talmente abituati al rumore di fondo, al flusso costante di notifiche, tutorial e “life hacks”, da dimenticare che molte delle risposte che cerchiamo sono già dentro di noi. Sono silenziose, non hanno un’app dedicata e, cosa più sconvolgente per il mercato, sono gratuite.

    Prendiamo la capacità di essere presenti, di goderci un momento. Oggi la chiamiamo “mindfulness”. È diventata un prodotto. Un’industria. Ci sono corsi, webinar, ritiri a pagamento per insegnarci a fare qualcosa che ogni bambino sa fare istintivamente: meravigliarsi di una formica che cammina, perdersi a guardare le nuvole, sentire il calore del sole sulla pelle senza doverlo postare su Instagram.

    Non fraintendetemi, ogni percorso di crescita è valido. Ma la mia riflessione è più amara, più cinica: siamo arrivati al punto di dover pagare qualcuno perché ci dia il permesso di disconnetterci? Di dover seguire un metodo strutturato per riscoprire il piacere di una passeggiata senza meta?

    Io ho i miei rituali. Non hanno un nome altisonante, non rilasciano un certificato di partecipazione. A volte è il borbottio del motore della moto che si placa quando mi fermo in cima a una collina. Altre volte è il fruscio delle foglie durante una camminata nel bosco. Spesso, è semplicemente il silenzio del mio giardino di notte, con lo sguardo perso verso un cielo che se ne frega altamente dei miei problemi e delle mie scadenze.

    Questa è la mia “consapevolezza”. Non l’ho imparata, l’ho sempre saputa. L’avevo solo dimenticata, sepolta sotto strati di urgenze, doveri e distrazioni digitali.

    Forse il vero lusso, oggi, non è potersi permettere il corso più esclusivo. Forse è avere il coraggio di spegnere tutto e ascoltarsi. Riscoprire quelle piccole pratiche personali che ci rimettono in sesto, senza bisogno che un esperto ci dica come e quando farle.

    Il punto a cui sono arrivato è che la società moderna non ci vende soluzioni a problemi nuovi. Spesso, ci vende a caro prezzo le soluzioni a problemi che lei stessa ha creato. Ci toglie il tempo, la pace e la capacità di ascoltarci, per poi venderci surrogati in pillole, corsi e abbonamenti.

    Un meccanismo geniale, a pensarci bene. Terribilmente geniale.

    E voi? Qual è quella cosa semplice, quel vostro piccolo rituale gratuito, che vi rifiutate di farvi portare via o di dover “re-imparare” a pagamento?

    Fatemi sapere. O anche no. Magari, invece di scrivere un commento, andate a fare quella cosa.

    Funzionerà meglio.

  • Ci fregano sempre con le parole.

    Vacanze: evasione dalla prigione del quotidiano o libertà vigilata?

    C’è un inganno sottile nel modo in cui parliamo di vacanze. Usiamo parole da latitanti – “scappare”, “evadere”, “fuggire” – che hanno più il sapore del ferro che della salsedine.

    Ma perché usiamo un vocabolario da criminali? Sembra quasi che la nostra vita sia una prigione da cui fuggire e non un’esistenza da abitare. È come se l’ordinario fosse una condanna da scontare dietro sbarre fatte di doveri e divieti, e la spiaggia diventasse una breve, illusoria libertà vigilata.

    Forse è arrivato il momento di cambiare vocabolario, e con esso la prospettiva.

    Non più scappare, ma scegliere un tempo diverso.

    Non più evadere, ma respirare a pieni polmoni.

    Non più fuggire, ma ritrovarsi.

    Perché se la vacanza è l’espressione massima della libertà, allora il resto dell’anno non può essere prigionia. Dovrebbe essere l’allenamento costante a quella libertà. Solo così possiamo imparare a trovare una crepa anche nel lunedì più denso, un frammento di tramonto anche nella luce artificiale di un ufficio.

    Altrimenti la verità è una sola: non siamo persone in vacanza, ma carcerati con il biglietto del treno in tasca.

  • Caorle, o di come un luogo può diventare un sogno.

    Caorle, o di come un luogo può diventare un sogno.

    Ci sono luoghi che attraversiamo e ci lasciano addosso soltanto fotografie. E poi ci sono luoghi che ci abitano. Non semplici coordinate su una mappa, ma porti sicuri dell’anima: specchi in cui ritroviamo parti di noi che credevamo perdute, o che ancora speriamo di diventare. Per me, Caorle è questo.

    Oggi ci sono tornato. Camminare tra i suoi viali e calli strette è stato come riaprire un dialogo interrotto: con un vecchio amico, ma soprattutto con una versione più giovane di me. Ricordo ancora il pensiero che qui, anni fa, mi attraversò come una corrente silenziosa: “Un giorno, quando andrò in pensione, verrò a vivere qui.” Fantasia estiva? Capriccio? Forse un patto. Quasi una promessa che il futuro, prima o poi, mi presenterà sotto forma di mare e orizzonte. Perché Caorle è sì un borgo di pescatori mirabilmente conservato.

    Ma è soprattutto un ritmo. Il ritmo lento delle barche che sonnecchiano nel porticciolo dopo la fatica. Il sole che accarezza i muri colorati come un amante gentile. Il vento che sussurra, piegando appena le vele, sfiorando le pietre come se volesse confidare loro un segreto antico. È una tregua dal rumore del mondo.

    Il Centro Storico di Caorle

    Passeggiando, mi sono fermato a osservare i dettagli che solo un occhio in cerca di bellezza può trattenere: la luce che si frantuma sull’acqua del lungomare, trasformandola in un tesoro liquido e dorato; il campanile cilindrico che veglia sul mare e sul tempo stesso; la Madonna dell’Angelo, protesa come una mano fin dentro l’acqua, custode di una leggenda che sa di miracolo e di sale; i Casoni dei pescatori, sentinelle di una tradizione che resiste, come vecchi saggi che non hanno fretta di andarsene. Qui ogni angolo diventa un verso già scritto. Ogni facciata colorata è un dipinto che si contempla in silenzio. Ogni passo, parte di un poema che non ha bisogno di rime per esistere.

    Il sogno di invecchiare qui non nasce dalla resa, ma dalla scelta. La scelta di abitare una bellezza che non ha bisogno di gridare per esistere. Una bellezza che sa attendere. Che respira al ritmo del mare.

    L’ Anima Marinara di Caorle

    Forse tutti abbiamo una nostra Caorle.Un luogo che non è un ricordo, ma una promessa. La mia sa di sale e di reti stese ad asciugare al sole. E porta con sé l’immagine di un futuro sereno, scritto tra le onde e i colori delle case.