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  • Il Fascismo, l’Herpes e il Paradosso della Cura: una teoria viscerale

    Macchia di ruggine su acciaio inox che simboleggia il fascismo come malattia latente

    L’urgenza di una diagnosi scomoda

    Perdonate la franchezza. A volte la filosofia politica è troppo pulita, troppo accademica. Si perde nei salotti mentre la realtà accade per strada.

    Stavo riflettendo sulle recenti polemiche riguardanti i movimenti antifascisti, quelli finiti nelle liste nere dell’antiterrorismo americano, e mi sono fatto l’idea che stiamo sbagliando approccio. Ci arrovelliamo sul “Paradosso della Tolleranza” di Karl Popper, ci chiediamo se sia lecito tollerare gli intolleranti, ci perdiamo in disquisizioni etiche.

    Io ho una teoria diversa. Una teoria “terra terra”, forse volgare, ma credo sia tremendamente efficace.

    Le ideologie estremiste (tutte, nessuna esclusa) sono come l’Herpes Genitale.

    Ora vi spiego questa metafora, che sono sicuro vi sta facendo storcere il naso. Ma forse é l’unica che spiega davvero la storia del Novecento e le sue propaggini fino ad oggi.

    La Latenza: il virus che dorme nei nervi

    Se avete avuto modo di studiare il pensiero di Umberto Eco, saprete che parlava di “Ur-Fascismo”, il Fascismo Eterno. Mentre Primo Levi, che l’inferno lo ha visto da dentro, parlava di un “bacillo” che non muore mai.

    Ecco, ora non voglio certo mettermi a confronto con questi due giganti, ma piuttosto unire i concetti e tradurli da un punto di vista… biologico. Il punto è questo: sai che ce l’hai.
    È lì. Magari rimane latente per anni, decenni. La società sembra sana, la democrazia funziona, ci sentiamo tutti civili e vaccinati. Ma il virus non se n’è andato. Si è solo nascosto nel sistema nervoso della società. Dorme nelle nostre paure, nel nostro egoismo, nella nostra ignoranza.

    Tollerarlo in questa fase non è una scelta etica: è una necessità fisiologica. Non puoi “sradicarlo” completamente senza uccidere l’ospite, senza instaurare un controllo talmente totalitario sul pensiero da diventare tu stesso il male che combatti.

    Quindi convivi. Sai che c’è, e speri che non si svegli.

    Il “Trigger”: quando le difese crollano

    Ma l’herpes non esce a caso. Esce quando sei debole.
    Quando il corpo sociale è sotto stress, quando l’economia crolla, quando la sfiducia nelle istituzioni tocca il fondo, ecco che le difese immunitarie si abbassano.

    È lì che il virus “mette fuori la testa”.

    Smette di essere un’idea latente e diventa un sintomo fisico: violenza, sopraffazione, squadrismo. Che si vesta di nero, di rosso o di qualsiasi altro colore, il meccanismo biologico è lo stesso.

    Bertolt Brecht diceva che “il ventre che ha partorito la bestia immonda è ancora fecondo”. Aveva ragione. Il ventre siamo noi quando smettiamo di ragionare e iniziamo ad avere paura.

    La Cura d’Urto: perché la tolleranza ha un limite

    Ed è qui che la mia teoria scivola via sul paradosso di Popper con il pragmatismo di chi deve risolvere un problema.

    Se tolleri la fase latente (perché non hai scelta), non puoi permetterti di tollerare la fase acuta.

    Appena il virus si palesa, appena diventa piaga, devi combatterlo. Subito!

    Non puoi dire “ma sì, è solo una piccola bolla”. Perché quella bolla è contagiosa. Se la lasci fare, diventa necrosi. Può portare alla morte dell’organismo democratico.

    In quel momento, la tolleranza è complicità. In quel momento serve l’antivirale, serve la medicina amara. Bisogna intervenire prima che diventi epidemia.

    Teniamo alte le difese

    Questa visione è cinica? Forse.

    Vorrei però che fosse un richiamo alla responsabilità. Smettiamola di cercare la purezza assoluta, non esiste. Esistono solo organismi con un buon sistema immunitario e organismi immunodepressi.

    L’antifascismo, quello vero, non è una bandiera da sventolare solo nelle feste comandate. È l’igiene quotidiana della democrazia. È mangiare sano, dormire bene, non stressare il corpo sociale. È cultura, è memoria, è bellezza.

    Cerco la bellezza ovunque, e se non la trovo la creo. Ma so anche che la bruttezza è un virus che non dorme mai davvero. Sta a noi decidere se lasciarlo vincere o tenerlo a bada, giorno dopo giorno.

  • E quello che farete al più piccolo tra voi…

    E quello che farete al più piccolo tra voi…

    Ci sono parole che non si possono addomesticare. Parole che non invecchiano. Parole che, se le prendi sul serio, ti costringono a guardarti dentro senza scuse.

    Gesù, durante la sua Passione, sorprende sempre. Non grida vendetta, non lancia maledizioni. Non cerca nemmeno di difendersi: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno.”

    Ma quando si tratta dei piccoli, delle creature fragili, la sua voce diventa di pietra. Nessuna sfumatura, nessun compromesso: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me».

    È una sentenza, nuda e cruda. Non parla di colpe generiche, parla di azioni concrete. O fai, o non fai. E se non lo fai, è come se avessi voltato le spalle a Lui.

    E allora, ditemi: quando qualcuno brandisce il Vangelo come un’arma da comizio, quando urla “Dio, Patria e Famiglia” da un palco politico, ha davvero capito che cosa sta pronunciando? Perché se Dio è ridotto a un logo elettorale, se la Patria diventa un recinto che esclude, se la Famiglia è soltanto una parola vuota buona per i manifesti… allora siamo già fuori strada.

    Il Vangelo non si piega alle convenienze. Il Vangelo ti scomoda, ti costringe a cambiare, a guardare chi non vorresti guardare: il povero, lo straniero, il bambino che non ha nulla.

    Viviamo in un mondo che classifica anche l’innocenza. Ci sono bambini che hanno diritto alla scuola, al gioco, a un futuro. E bambini che nascono già scartati, già segnati da una condanna invisibile.

    Non parliamo solo di “serie A” e “serie B”: la verità più dura è che la maggioranza non entra nemmeno in campo. Non hanno scarpe, non hanno arbitri, non hanno regole che li proteggano. Sono fuori dal campionato della vita prima ancora di cominciare.

    E poi c’è Gaza.

    Ogni giorno, immagini di ospedali sventrati, scuole trasformate in macerie, bambini estratti dalla polvere con gli occhi spalancati di terrore.

    Eppure, se osi dire che è inaccettabile, ti accusano di… antisemitismo. Ma i veri antisemiti non sono forse quelli che legittimano il genocidio di un popolo, tradendo la stessa memoria che dicono di difendere?

    Chi applaude alle bombe non protegge nessuno: semina solo odio che tornerà, ancora più feroce.

    Il bambino di Gaza sotto le macerie e il bambino di Tel Aviv in un bunker hanno lo stesso diritto di svegliarsi domattina.

    E non sono diversi dal bambino di Milano o di Nairobi: Il dolore ha lo stesso pianto, la stessa fame, la stessa paura.

    Il Vangelo non dice: “Proteggete solo quelli che vi somigliano”. Dice: «Quello che fate, o non fate, al più piccolo… lo fate, o non lo fate, a me».

    La domanda, alla fine, resta lì. Immobile, tagliente come una lama.

    Se fosse tuo figlio sotto quelle macerie? Se fosse tua figlia a non avere un letto, un bicchiere d’acqua, una carezza? Ti basterebbe ancora dire: “Non è affar mio”?

    Forse è qui che Gesù ci mette con le spalle al muro: non davanti a Dio, ma davanti a noi stessi. Perché non si tratta di religione, né di politica, né di ideologia.

    Si tratta di sguardi.

    Di volti concreti.

    Di mani piccole da stringere.

    È lì che si misura la nostra umanità.

    E, se davvero crediamo in qualcosa, è lì che si misura anche la nostra fede.

    Il resto sono solo le stramaledette parole una politica senza più un briciolo di anima.