Tag: ispirazione

  • Tre anni sotto pelle.

    Tre anni sotto pelle.

    Storia di un’ispirazione ritrovata

    Ieri Facebook mi ha fatto vedere un ricordo: io nel mio studio artigianale, chitarra in mano, che suonavo l’inizio di qualcosa di nuovo. GarageBand aperto, effetto chitarra imbarazzante, e quella didascalia romantica sulle molecole dell’aria che vibrano. Di quelle note me ne sono dimenticato quasi subito.
    O almeno credevo.

    Il Momento

    Quando ho rivisto quel video, è successo qualcosa di strano. Non ho pensato “ah, carino”. Ho sentito il brano finito. Tutto. Mixato, con gli effetti giusti, ogni parte al suo posto. Come se i tre anni nel mezzo non fossero mai esistiti, come se quel suono grezzo del 2022 fosse solo l’anteprima di una cosa che esisteva già da qualche parte e dovevo solo andare a prenderla.
    Non ci ho pensato due volte. Sono corso in studio, ho aperto Logic Pro, e l’ho fatto. Quello che vedevo, quello che sentivo, quello che era già lì.

    Semini un’idea

    Tre anni fa quelle note erano imperfette. Registrate male, suonate peggio, ma dentro c’era qualcosa. Lo sentivo. Quella vibrazione sottopelle di cui scrivevo nella didascalia — non era retorica. Era vera. C’era un’emozione che cercava forma, e io stavo provando a darle voce.
    Poi è arrivata la vita. Altri progetti, altre canzoni, altre ossessioni. E quel file è finito sepolto in una cartella che non aprivo più.
    Per tre anni ho creduto di aver “perso” quell’idea. Che fosse uno di quei semi caduti sulla pietra, senza terra dove attecchire. Ma mi sbagliavo.

    Il Tempo Nascosto

    Non so dove sia stata quell’idea per tre anni. Non credo di averci pensato consciamente nemmeno una volta. Eppure quando l’ho risentita, era già cresciuta. Non dovevo inventare niente, solo ascoltare quello che era diventata da sola, in qualche angolo nascosto del cervello dove le cose continuano a vivere anche quando non le guardi.
    È una sensazione che conosco bene, ma che ogni volta mi sorprende. Quell’attimo in cui capisci che l’ispirazione non è un fulmine che o lo cogli o sparisce. È più simile a un seme. Alcuni germogliano subito, altri hanno bisogno di buio, di tempo, di dimenticanza.
    Di tre anni, a quanto pare.

    Quello Che Resta

    Questa storia mi ha ricordato una cosa che tendo a dimenticare quando mi faccio prendere dall’ansia produttiva: non tutte le idee devono fiorire subito. Alcune hanno bisogno di stare nell’ombra. Di essere dimenticate. Di aspettare che tu diventi la persona in grado di realizzarle.
    L’ispirazione non si perde. Si nasconde, si trasforma, aspetta. E quando torna, lo fa con una chiarezza che non aveva tre anni prima.
    Ho ricreato il video partendo proprio da quel primo momento. Quaranta secondi che raccontano tre anni in due atti. Ma questa storia — quella vera, quella delle idee che crescono nel buio — quella sta qui.
    Dove le cose hanno il tempo di aspettare.

    P.S. — Il brano è synth-pop, ma chissenefrega. Alcune vibrazioni non hanno genere, hanno solo bisogno del momento giusto per diventare suono. 🎹✨

  • L’idea che non esce (o della creatività con scarpe di piombo).

    Uomo calvo con barba bianca che dorme; accanto, figura di ragazza avvolta dalla nebbia, tiene un libro, è vestita di note musicali, fa le linguacce.
    Quando l’idea arriva al momento sbagliato: un’idea avvolta dalla nebbia mentale, armata di libro e note musicali, che fa le linguacce a chi non può darle corpo.

    Questo racconto parla di uno dei conflitti fondamentali di chi fa creatività: quando il blocco mentale da insonnia trasforma l’ispirazione in un fantasma impossibile da afferrare.

    Ci sei. Lo so che ci sei. Ti ho sentita muoverti questa mattina, quando ho aperto gli occhi alle 3:56 con il naso tappato e la gola che sapeva di carta vetrata. Sei lì, da qualche parte dietro la nebbia. Come un gatto che non vuoi farti accarezzare.


    “Dai dai dai! Lo so che ci sei! Ho visto la tua ombra!” ti dico, mentre fisso lo schermo con gli occhi che bruciano e il cursore che lampeggia beffardo. Tu non rispondi. Ovvio. Le idee sono stronze quando sei sveglio da ventotto ore con tre ore di sonno distribuite male.


    Il problema non è la tua mancanza. Il problema è che tra me e te c’è un intero stagno di melma cognitiva. Blocco mentale. È come correre i 100 metri con scarpe di piombo mentre qualcuno mi soffia fumo negli occhi e mi riempie i bronchi di carta straccia in fiamme. Per chi non è abituato a usare il cervello, una notte insonne non cambia quasi nulla. Per me è la stessa differenza tra suonare un assolo di chitarra e provare a farlo con le mani fasciate. Succede quando la creatività incontra l’insonnia!


    Tu sei lì, imprigionata dietro uno strato di ovatta cerebrale, che mi guardi e pensi: “Amico, oggi non è giornata. Torna quando hai dormito”. E io sono testardo. O stupido. O entrambi. Continuo a cercarti, ad ignorare il blocco creativo da stanchezza, a scavare nella nebbia con le mani mentali intorpidite, sperando che prima o poi ti materializzi.


    Invece materializzo solo sintomi: naso chiuso, bronchi che fischiano, quella sensazione di galleggiare a mezz’aria senza ancora, la certezza matematica che ogni parola che scrivo è spazzatura che dovrò rileggere domani pensando “ma chi me l’ha fatto fare?”


    Eppure ti ho vista. Giuro che ti ho vista. Eri luminosa, avevi senso, promettevi di diventare qualcosa di bello. Adesso sei solo un fantasma che si aggira nei meandri di un cervello che chiede pietà. Un’ombra dietro il vetro sporco della stanchezza.


    Forse dovrei arrendermi. Forse dovrei accettare che oggi la creatività ha vinto per abbandono. Che tu, come le persone, hai diritto a un ambiente dignitoso per manifestarti, e il mio cervello attuale è un cantiere abbandonato con cartelli di “pericolo crollo”.


    Torno a dormire.


    No, non posso. La vita reale e l’Acciaio mi reclamano.

    PS: Potevo farmi aiutare dall’IA?… forse… ma non ne avevo voglia! https://ilrickyverso.it/lia-puo-turbare-o-far-mettere-il-turbo/

  • Una questione d’amore. (E di tradimento)

    C’è un momento, quando le dita si appoggiano sui tasti…

    C’è un momento, un istante sospeso nel silenzio.

    È quando le dita si appoggiano sui tasti, quando la mano stringe una penna, quando le labbra si schiudono a un soffio dal microfono. In quell’istante, tutto ciò che esiste è un rapporto a due. Io e lei. L’idea, la melodia, l’emozione che preme per uscire.

    È una conversazione intima, quasi segreta. Un patto di verità assoluta, senza maschere né filtri. È come stare con un’amante: puoi solo essere te stesso, nudo e scoperto. Lei conosce le tue crepe, le tue paure, e ti chiede solo di essere onesto.

    Questa cosa che nasce è la cosa più mia che esista.

    Poi, però, arriva il mondo.

    Quella porta si apre e quella conversazione privata diventa un monologo pubblico. Quella cosa così mia, all’improvviso, diventa di tutti.

    E qui, proprio qui, si annida il rischio del più squallido dei tradimenti.

    Il momento esatto in cui il tuo sguardo si sposta da lei – dalla tua amante, dalla tua verità – e si fissa su di loro. Sul pubblico. E non per cercare uno scambio di sguardi complici, ma per mendicare un’approvazione. Per un applauso. Per un like.

    In quell’istante, l’intimità si spezza. Inizi a mentire. A lei, e a te stesso.

    “Forse questo passaggio è troppo difficile, non piacerà.”

    “Magari questa parola è troppo dura, meglio ammorbidirla.”

    “Se cambio questo accordo, suonerà più commerciale.”

    Ogni piccola concessione è un pezzo di lei che vendi. E senza accorgertene, hai smesso di essere il suo amante e sei diventato il suo pappone. L’hai presa, l’hai vestita come volevano gli altri e l’hai messa sul marciapiede del consenso facile. L’hai trasformata in una prostituta.

    Non fraintendermi. Vedere la tua anima risuonare in quella di un altro è un miracolo. È la forma più alta di connessione. Ma la connessione nasce dalla verità condivisa, non dalla menzogna costruita per compiacere.

    Non so voi, ma io una scelta ho dovuto farla.

    Continuo a scrivere, a suonare e a cantare per lei. Per quella conversazione a due nel silenzio della stanza.

    Se poi, quando apro la porta, qualcuno si ferma ad ascoltare e ci si riconosce, allora la magia si è compiuta. Ma non è quello il fine. È solo una conseguenza meravigliosa.

    Il fine è rimanere fedeli.

    Almeno a lei. E un po’, forse, anche a se stessi.