Ci fregano sempre con le parole.

Vacanze: evasione dalla prigione del quotidiano o libertà vigilata?

C’è un inganno sottile nel modo in cui parliamo di vacanze. Usiamo parole da latitanti – “scappare”, “evadere”, “fuggire” – che hanno più il sapore del ferro che della salsedine.

Ma perché usiamo un vocabolario da criminali? Sembra quasi che la nostra vita sia una prigione da cui fuggire e non un’esistenza da abitare. È come se l’ordinario fosse una condanna da scontare dietro sbarre fatte di doveri e divieti, e la spiaggia diventasse una breve, illusoria libertà vigilata.

Forse è arrivato il momento di cambiare vocabolario, e con esso la prospettiva.

Non più scappare, ma scegliere un tempo diverso.

Non più evadere, ma respirare a pieni polmoni.

Non più fuggire, ma ritrovarsi.

Perché se la vacanza è l’espressione massima della libertà, allora il resto dell’anno non può essere prigionia. Dovrebbe essere l’allenamento costante a quella libertà. Solo così possiamo imparare a trovare una crepa anche nel lunedì più denso, un frammento di tramonto anche nella luce artificiale di un ufficio.

Altrimenti la verità è una sola: non siamo persone in vacanza, ma carcerati con il biglietto del treno in tasca.